“Oh, le parole prigioniere

che battono battono furiosamente

alla porta dell’anima…”

(A.Pozzi)

In secoli di storia della letteratura, la donna è sempre stata raccontata dall’uomo come se la sua voce potesse farsi intendere solo attraverso la parola maschile: da sempre oggetto dell’ispirazione raramente la donna è stata soggetto del processo creativo. Sin dalle origini la donna scrittrice, che pure c’è stata, si è trovata ai margini, è stata penalizzata da rifiuti, censure, scarsamente considerata come se la sua espressione fosse poco significativa dal punto di vista artistico. La stessa letteratura ufficiale con i suoi generi tradizionali aderiva a canoni maschili così la voce femminile non solo appariva una voce nel deserto ma anche le opere, sebbene valide in molti casi, erano relegate nel silenzio e nell’ombra. Nel Settecento però qualcosa cambia: la donna comincia ad imporsi e ad affermarsi socialmente. Le dame parigine cominciano a partecipare alla vita culturale aprendo e gestendo nelle loro case i “salotti”, luoghi di discussione fra intellettuali. Uno dei salotti più famosi del Settecento fu quello di Madame de Geoffrin, che ospitava illustri intellettuali, a partire dal 1749 a Parigi, in rue Saint-Honoré. È il momento in cui la donna comincia a scrivere dando voce ai suoi pensieri. La scrittura dà vigore alla parola, le attribuisce memoria e durata. Per la donna diviene modo privilegiato per dare conferma di sé e identificarsi come persona e come genere. Di pari passo nasce l’attenzione nei confronti della scrittura femminile che non solo possiede i segni di un’identità sessuale differente ma anche di un differente immaginario. Il centro della narrativa “al femminile” è la casa, il luogo appartato in cui isolarsi per riflettere e scrivere, la “stanza tutta per sé” che la Woolf suggeriva alle studentesse del Newnham e del Girton College di Cambridge. La Woolf aveva intuito che, una volta conquistati i diritti civili, le nuove forme di esclusione e di spersonalizzazione della donna sarebbero state causate dalla famiglia, colpevole di limitare l’espressione dell’io femminile. Paola Mastrocola nell’introduzione all’antologia di poesie “L’altro sguardo” afferma che “scrivere poesia è per le donne trovare un luogo depositario dell’autentico” essendo la scrittura femminile, forse più di quella maschile, costruita sulla ricerca della verità; “scrivere è riflettere su se stesse, riflettersi, piegarsi dentro e lì dentro guardare, a costo di trovare il buio e l’orrore”. Rappresenta per la donna l’identificazione, la conferma del sé come individuo e come genere. La scrittura femminile, in poesia come in prosa, rappresenta una delle espressioni più estreme, della crisi prodotta nella coscienza moderna dalla violenza e dalle contraddizioni causate dagli eventi che hanno sconvolto la civiltà contemporanea. Allora davvero la scrittura delle donne, anche nel trattare temi autobiografici, proprio per questo evidenzia tutto il suo coraggio e il suo rigore. Eppure ancora oggi tante ottime scrittrici non hanno ancora avuto i riconoscimenti e gli apprezzamenti che meritano, la loro produzione risulta sommersa e di difficile reperibilità. Si tratta di autrici provenienti da aree geografiche diverse ma tutte sono accomunate da un destino comune di marginalità e di censura, assolutamente ingiustificato: Marie Noel, Anne Carsonn, Sally Spread, Adrienne Rich, e tante altre. Perfino nelle antologie di poesia del Novecento, quella di Pier Vincenzo Mengaldo (“Poeti italiani del Novecento”), e in quella compilata da Edoardo Sanguineti (“Poesia italiana del Novecento”) le donne sono ignorate (solo Mengaldo inserisce alcune liriche della Rosselli). Quest’ impostazione storico-metodologica è andata poi rispecchiandosi nelle antologie per la scuola, tutte improntate a raccontare una storia letteraria declinata al maschile ad eccezione di alcune rare sezioni dedicate al tema “Voci femminili nella letteratura italiana”. Troppe volte, in passato, si è messa in dubbio l’effettiva validità artistica di diverse opere femminili, si sono utilizzati giudizi come sentimentalismo, autobiografismo eccessivo, lirismo compiaciuto: alcuni bestsellers sentimentali inoltre ci hanno danneggiato non poco. Ancora oggi perdura il pregiudizio di una poesia delle donne che «si nutra» anzitutto «di vissuto e di esperienza» e che faccia «un uso emotivo, istintivo della lingua». Solo nel1951 Giacinto Spagnoletti pubblicò l’antologia “Poetesse del Novecento” e inserì liriche di una giovane sconosciuta che rispondeva al nome di Alda Merini. Di recente Giovanna Rosadini ha curato la raccolta «Nuovi poeti italiani 6», pubblicata nella collana «bianca» di Einaudi, in cui sono incluse solo autrici di sesso femminile (Alida Airaghi, Daniela Attanasio, Antonella Bukovaz, Maria Grazia Calandrone, Chandra Livia Candiani, Gabriela Fantato, Giovanna Frene, Isabella Leardini, Laura Liberale, Franca Mancinelli, Laura Pugno e Rossella Tempesta). La scelta ha suscitato obiezioni e critiche. Oggi anche la scuola cancella le regine delle lettere dai programmi ministeriali. Nel 2010 una commissione di esperti nominati dall’allora ministro della Pubblica Istruzione, Gelmini, ha tagliato dai programmi di letteratura del quinto anno, poeti e scrittori meridionali ( Quasimodo, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, Brancati, Vittorini, Gatto, Scotellaro e altri) e di sesso femminile (Natalia Ginzburg, Lalla Romano, Anna Banti, Anna Maria Ortese, Amelia Rosselli, Alda Merini). Grave è l’aver limitato la presenza femminile alla sola Morante. In molti casi, nonostante offra il modo privilegiato per ribellarsi, evadere, “trasgredire”, la scrittura non concede compensazione né serenità. La stessa parola non riesce ad essere “salvifica”: il conflitto tra esigenza del sogno e realtà intrappola l’essere. Basti pensare alle poetesse suicide, autrici di versi di eccezionale forza espressiva: Saffo, V. Woolf, A. Storni, Florbela Espanca, M. Cvetaeva, A. Sexton, S. Plath, A. Pozzi, A. Rosselli, Sara Kane e l’elenco potrebbe continuare; tutte hanno vissuto, ciascuna a suo modo, il laceramento simbolico, lo sdoppiamento tra soggetto pensante e oggetto rappresentato.

Mi porterai in giardini sontuosi

dove ogni pietra sarà un lapislazzulo.

Invano cercherò carogne di gatti

per non essere troppo spaesata.

Nemmeno una spina dei reticolati di Auschwitz,

nemmeno un suo schiaffo o un bacio maldestro.

Sarà piacevole il cambio, a dir poco.

Ma ciò che è stato si cancellerà?

Potrà il passato andare a ritroso,

bella spugna impregnata di ogni azzurro?

E non sarà una favola? L’oceano del sangue

si potrà prosciugare a un tuo raggio?

Non vorrò passeggiare in quei giardini

e mangiare le arance delle Esperidi

se non in compagnia di Alfonsina,

di Mariannina, di Amelia, di Antonia.

Loro vollero la morte a braccia aperte,

angeli refrattari alla chiamata.

Ridarai a tutte, redento, quel tempo

rifiutato, ma di loro diritto?

Mie sorelle ignote alle anagrafi umane ,

che cosa facevo mentre loro morivano?

Ero bambina e felice . Dovevo allentare quel cappio,

chiudere i vetri, scongiurare la neve e il mare.

Ma io giocavo a tennis, avevo il primo amore,

con passo alato andavo all’avvenire.

Ho il doppio o il triplo, ora, dei loro anni

e mi aggroviglio in serpenti di assurdi rimorsi.

Chiesero a un santo: «Dio è forse giusto

se fa morire un quindicenne o un vecchio?».

Per salvarsi affermò che all’ora della morte

tutti hanno avuto la stessa mercede di tempo –

perché la vita è un elastico metafisico

ch e privo di tensione o tirato al massimo

contiene tutto quanto può disporre di bello,

di triste, di essenziale, di francamente atroce.

(da Preghiera per le poetesse suicide, di Maria Luisa Spaziani, in La luna è già alta).

Dal testo emerge tra l’autrice e le sue poetesse un rapporto di gratitudine e di profonda riconoscenza. Accomunate da una tragica fine e dalla passione infinita per la scrittura in versi, Alfonsina Storni, Mariannina Coffa, Amelia Rosselli e Antonia Pozzi sono ricordate nel nome della poesia, capace di ridare spessore all’ombra invisibile dei morti. Tante sono le vite condotte a metà tra salute e malattia, benessere della mente e violenza autodistruttiva. A volte si è incapaci di adattarsi al mondo, di sopportare le tragedie della vita, di tollerare la normalità. E così le personalità più fragili si sono piegate, inghiottite dal silenzio; altre, più scomode e ribelli hanno subìto la costrizione di collegi e manicomi. Si tratta di storia recente visto che i collegi Magdalene, di cui parla il lungometraggio omonimo del 2002 di Peter Mullan, esistevano negli anni Sessanta.

#4

Me la ricordo Amelia

era malata.

Aveva un male che era

un infinito senza sbarre da fuggire – lei si ammalava

di proposito,

per trovare

la forza di morire ha detto poi la vecchia

della porta accanto.

(da Benedizione per la bassa moltitudine di Azzurra De Paola)

Attraverso la poesia il poeta tenta di conciliare il cielo con la carne, tenta una via di fuga alla tragedia dell’esistere, non sempre la trova, ed ecco allora la corrosione, l’autodistruzione. Un importante elemento comune a molte autrici di poesia è lo stretto legame tra vita e scrittura, la poesia parla di affetti ed opera riferimenti concreti alla propria quotidianità. Anche l’io lirico non è mai centrale e fine a se stesso ma si apre al dialogo, si allarga fino a diventare un “noi”.

***

Antonia Pozzi aveva solo 26 anni quando si tolse la vita il 3 dicembre del 1938, nel prato di fronte all’abbazia di Chiaravalle di Milano. In Naufraghi anche lei si era espressa sulla morte.

Triste orto abbandonato l’anima
si cinge di selvagge siepi
di amori:
morire è questo
ricoprirsi di rovi
nati in noi.

(A.Pozzi)

***

Così Mercedes Sosa cantava in Alfonsina y el mar, toccante canzone scritta da Ariel Ramírez e Félix Luna per la poetessa argentina Alfonsina Storni, esponente del postmodernismo, che il 25 ottobre 1938, all’età di 46 anni si suicidò nel Mar del Plata.

Sulla morbida sabbia

lambita dal mare

la sua piccola impronta
non si voltò indietro
un sentiero solo
di pena e silenzio seguì
sino all’acqua profonda
un sentiero solo
di pene mutate arrivò
sino alla schiuma.

(A.Ramirez – F.Luna)

 ***

Virginia Woolf aveva 59 anni. Si riempì le tasche di sassi e si lasciò annegare nel fiume Ouse, vicino alla sua casa il  28 marzo del 1941. Femminista convinta, lottava per la parità dei sessi, al marito lasciò un biglietto di addio commovente:

“Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che nessuno avrebbe mai potuto essere. Non penso che due persone abbiano potuto essere più felici fino a quando è arrivata questa terribile malattia. Non posso più combattere. So che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti. E lo farai lo so”.

***

All’alba dell’11 febbraio 1963 nella sua casa londinese Sylvia Plath preparava latte e toast imburrati per i suoi bambini, apriva la finestra della loro camera e, per non metterli in pericolo, sigillava le fessure della porta della cucina con nastro adesivo e asciugamani bagnati. Si addormentava con la testa nel forno, la guancia appoggiata a un tovagliolo, il gas aperto. Edge (Limite) è l’ultima poesia scritta prima della sua morte, a soli trent’anni. È l’ultimo componimento di una vita dedicata alla scrittura, al difficile esperimento di far coincidere la letteratura con la vita, alla ricerca di uno spazio in cui non fosse tanto difficile vivere. 

Voglio scrivere perché ho bisogno di eccellere in uno dei mezzi di interpretazione della vita. […] La scrittura è necessaria alla sopravvivenza del mio spocchioso equilibrio come il pane per il corpo. […] Ho bisogno di scrivere e di esplorare le profonde miniere dell’esperienza e dell’immaginazione, far uscire le parole che, esaminandosi, diranno tutto…

 LIMITE

La donna ora è perfetta.
Il suo corpo

morto ha il sorriso della compiutezza,
l’illusione di una necessità greca

fluisce nei volumi della sua toga,
i suoi piedi

nudi sembrano dire:
Siamo arrivati fin qui, è finita.

I bambini morti si sono acciambellati,
ciascuno, bianco serpente,

presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota.
Lei li ha raccolti

di nuovo nel suo corpo come i petali
di una rosa si chiudono quando il giardino

s’irrigidisce e sanguinano i profumi
dalle dolci gole profonde del fiore notturno.

La luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso,
non ha motivo di essere triste.

È abituata a queste cose.
I suoi neri crepitano e tirano.

(S. Plath, 5 febbraio 1963)

Sylvia Plath era attratta dalla perfezione fino al disumano, voleva essere perfetta.

Lo stesso Ted Hughes, parlando di lei, afferma: “Era determinata all’eccellenza. In nessun aspetto della vita permetteva a se stessa di essere trascurata o inadeguata; in tutti voleva eccellere, in tutto aveva bisogno di perfezione. Soprattutto in poesia. Dietro alle sue poesie c’è una natura umana fiera, senza compromessi; c’è anche una bambina infatuata del mondo.”
Sylvia ha un rapporto privilegiato con la morte, dialoga con lei, ne è affascinata, la corteggia in una sensuale danza di parole.

“Come un gatto ho nove vite da morire. Questa è la numero tre. La prima volta successe che avevi dieci anni. Fu un incidente. Ma la seconda volta ero decisa a insistere, a non recedere assolutamente. Mi dondolavo chiusa come conchiglia. Dovettero chiamare e chiamare e staccarmi via i vermi come perle appiccicose. Morire è un’arte, come ogni altra cosa. Io lo faccio in un modo eccezionale. Io lo faccio che sembra come un inferno. Io lo faccio che sembra reale. Ammetterete che ho la vocazione.”

***

Anne Sexton aveva 45 anni quando, il 4 ottobre 1974, si intossicò con il monossido di carbonio nel suo garage a Boston. Soffriva di disturbo bipolare e proprio dopo un esaurimento venne incoraggiata da un dottore a scrivere poesie.

LE TUE MANI OSTINATE

Poi a letto penso a te,

la tua lingua metà oceano, metà cioccolata,

alle case dove entri con disinvoltura,

ai tuoi capelli di lana d’acciaio,

alle tue mani ostinate

e come rosicchiamo la barriera perché siamo due.

 

Come vieni e afferri la coppa di sangue,

mi ricompatti e bevi la mia acqua salata.

Siamo nudi. Ci siamo denudati fino all’osso

e insieme nuotando risaliamo il fiume,

l’identico fiume chiamato Possesso

e vi sprofondiamo insieme. Nessuno è solo.

(A.Sexton)

***

Nadia Campana è stata una poetessa, traduttrice, saggista italiana, della sua ricerca poetica e del suo linguaggio ci è rimasto solo un libro di poesie postumo, pubblicato da Crocetti. Anche lei si lanciò nel vuoto  a Milano, il 6 giugno del1985, a trentun anni.

Ho fatto un grande sogno ma non me ne ricordo

niente babbo amiamo le teste bruciate

dell’amore ma non la misericordia e

i chiodi come coltelli di gelosia

tra poco cadrà la strada su di te

spergiuro sulla mia infanzia scrivo

lettere, se non mi dai da mangiare

i capelli mi diventeranno come crine

e come un fucile. Notte di lupi

sprangare l’angelo del vento

qui è la piega

dove non sarà nuovo morire.

(N.Campana)

***

Anche Amelia Rosselli, apolide della poesia dal verso ruvido, si tolse la vita buttandosi dalla finestra della sua casa di Roma. Era l’11 febbraio del 1996, lo stesso giorno della morte di Sylvia Plath, autrice che aveva tradotto e amato.

Fluisce fra me e te nel subacqueo un chiarore
che deforma, un chiarore che deforma ogni passata
esperienza e la distorce in un fraseggiare mobile,
distorto, inesperto, espertissimo linguaggio
dell’ adolescenza! Difficilissima lingua del povero!
rovente muro del solitario! strappanti intenti
cannibaleschi, oh la serie delle divisioni fuori
del tempo. Dissipa tu se tu vuoi questa debole
vita che non si lagna. Che ci resta. Dissipa
tu il pudore della mia verginità; dissipa tu
la resa del corpo al nemico. Dissipa la mia effige,
dissipa il remo che batte sul ramo in disparte.
Dissipa tu se tu vuoi questa dissipata vita dissipa
tu le mie cangianti ragioni, dissipa il numero
troppo elevato di richieste che m’agonizzano:
dissipa l’orrore, sposta l’orrore al bene. Dissipa
tu se tu vuoi questa debole vita che si lagna,
ma io non ti trovo e non so dissiparmi. Dissipa
tu, se tu puoi, se tu sai, se ne hai il tempo
e la voglia, se è il caso, se è possibile, se
non debolmente ti lagni, questa mia vita che
non si lagna. Dissipa tu la montagna che m’impedisce
di vederti o di avanzare; nulla si può dissipare
che già non sia sfiaccato. Dissipa tu se tu
vuoi questa mia debole vita che s’incanta ad
ogni passaggio di debole bellezza; dissipa tu
se tu vuoi questo mio incantarsi, – dissipa tu
se tu vuoi la mia eterna ricerca del bello e
del buono e dei parassiti. Dissipa tu se tu puoi
la mia fanciullaggine; dissipa tu se tu vuoi,
o puoi, il mio incanto di te, che non è finito:
il mio sogno di te che tu devi per forza assecondare,
per diminuire …

A. Rosselli, da La libellula (Panegirico della libertà), XXII, I

***

Claudia Ruggeri, nonostante avesse sempre ottenuto ottimi risultati negli studi, non riuscì a laurearsi per i disturbi psichici che la affliggevano. Dedicò il suo tempo libero alla poesia, alla lettura, ai viaggi effettuati fin dall’infanzia, ai readings leccesi degli anni Ottanta. Ma anche lei, la più dotata e creativa, straordinaria interprete di poesie e performance, cedette alla depressione nel 1996.

 

Del Traghettatore: e volli

Il “folle volo” cieca sicura tuta

Volli la fine delle streghe volli

 

Il chiarore di chi ha gettato gli arnesi

Di memoria di chi sfilò il suo manto

Poggiò per sempre il Libro(…)

***

Sarah Kane, scrittrice e drammaturga britannica, autrice di controversi ma originalissimi testi teatrali lottò contro la depressione per molti anni e vi cedette a soli 28 anni, anche lei  il  20 febbraio 1999, dopo l’abuso di farmaci che le avevano prescritto, si impiccò con i lacci delle sue scarpe nella camera del King’s College Hospital, dov’era ricoverata.

“E voglio giocare a nascondino e darti i miei vestiti e dirti che mi piacciono le tue scarpe e sedermi sugli scalini mentre fai il bagno e massaggiarti il collo e baciarti i piedi e tenerti la mano e andare a cena fuori e non farci caso se mangi dal mio piatto e incontrarti da Rudy e parlare della giornata e battere a macchina le tue lettere e portare le tue scatole e ridere della tua paranoia e darti nastri che non ascolti e guardare film bellissimi e guardare film orribili e lamentarmi della radio e fotografarti mentre dormi e svegliarmi per portarti caffè brioches e ciambella e andare da Florent e bere caffè a mezzanotte e farmi rubare tutte le sigarette e non trovare mai un fiammifero e dirti quali programmi ho visto in tv la notte prima e portarti a far vedere l’occhio e non ridere delle tue barzellette e desiderarti di mattina ma lasciarti dormire ancora un po’ e baciarti la schiena e carezzarti la pelle e dirti quanto amo i tuoi capelli i tuoi occhi le tue labbra il tuocollo i tuoi seni il tuo culo il tuo…e sedermi a fumare sulle scale finché il tuo vicino non torna a casa e sedermi a fumare sulle scale finché tu non torni a casa e preoccuparmi se fai tardi e meravigliarmi se torni presto e portarti girasoli e andare alla tua festa e ballare fino a diventare nero e essere mortificato quando sbaglio e felice quando mi perdoni e guardare le tue foto e desiderare di averti sempre conosciuta e sentire la tua voce nell’orecchio e sentire la tua pelle sulla mia pelle e spaventarmi quando sei arrabbiata e hai un occhio che è diventato rosso e l’altro blu e i capelli tutti a sinistra e la faccia orientale e dirti che sei splendida e abbracciarti se sei angosciata e stringerti se stai male e aver voglia di te se sento il tuo odore e darti fastidio quando ti tocco e lamentarmi quando sono con te e lamentarmi quando non sono con te e sbavare dietro ai tuoi seni e coprirti la notte e avere freddo quando prendi tutta la coperta e caldo quando non lo fai e sciogliermi quando sorridi e dissolvermi quando ridi e non capire perché credi che ti rifiuti visto che non ti rifiuto e domandarmi come hai fatto a pensare che ti avessi rifiutato e chiedermi chi sei ma accettarti chiunque tu sia e raccontarti dell’angelo dell’albero il bambino della foresta incantata che attraversò volando gli oceani per amor tuo e scrivere poesie per te e chiedermi perché non mi credi e provare un sentimento così profondo da non trovare le parole per esprimerlo e aver voglia di comperarti un gattino di cui diventerei subito geloso perché riceverebbe più attenzioni di me e tenerti a letto quando devi andare via e piangere come un bambino quando te ne vai e schiacciare gli scarafaggi e comprarti regali che non vuoi e riportarmeli via e chiederti di sposarmi e dopo che mi hai detto ancora una volta di no continuare a chiedertelo perché anche se credi che non lo voglia davvero io lo voglio veramente sin dalla prima volta che te l’ho chiesto e andare in giro per la città pensando che è vuota senza di te e volere quello che vuoi tu e pensare che mi sto perdendo ma sapere che con te sono al sicuro e raccontarti il peggio di me e cercare di darti il meglio perché è questo che meriti e rispondere alle tue domande anche quando potrei non farlo e cercare di essere onesto perché so che preferisci così e sapere che è finita ma restare ancora dieci minuti prima che tu mi cacci per sempre dalla tua vita e dimenticare chi sono e cercare di esserti vicino perché è bello imparare a conoscerti e ne vale di sicuro la pena e parlarti in un pessimo tedesco e in un ebraico ancora peggiore e far l’amore con te alle tre di mattina e non so come non so come non so come comunicarti qualcosa dell’assoluto eterno indomabile incondizionato inarrestabile irrazionale razionalissimo costante infinito amore che ho per te.”

***

E infine va ricordata Nika Turbina, bambina prodigio della poesia, autrice di versi di eccezionale potenza espressiva, nonostante la giovane età, scomparsa tragicamente a Mosca, a soli ventisette anni, l’11 maggio 2002.

Sono pesi queste mie poesie,

pietre spinte lungo una salita.

Le poterò stremata

allo strapiombo.

Poi cadrò, viso nell’erba,

non avrò lacrime abbastanza.

Smembrerò la strofa

scoppierà in singhiozzo il verso

e si pianterà nel palmo

con dolore anche l’ortica.

L’amarezza di quel giorno

tutto trasmuterà in parola.

(N.Turbina)

L’immaginario sessista ha indotto disamore nelle donne, in nome di un unico e solo modello di bellezza e questa forma sottile e subdola di violenza ha prodotto fratture e incertezze nell’autostima di molte donne. Eppure la donna ne ha fatta di strada, grazie al femminismo e ad opere come quel grande saggio intitolato Il secondo sesso di Simone de Beauvoir  è diventata protagonista di cambiamenti che la riguardavano in prima persona, per la prima volta ha acquisito “coscienza di sé”. A me non piace parlare di “femminismo”: lo ritengo d’accordo con la Woolf de Le tre ghinee un nome abusato, “una parola corrotta, una parola da bruciare”. Oggi del resto non si tratta più di rivendicare parità ma di attuare il superamento del paradigma soggetto-oggetto e di riconoscere l’elemento dinamico del femminile, inteso come non coincidenza fra sé e sé. Si tratterebbe di una sorta di femminismo della differenza, il considerare l’altro “termine” in una relazione di scambio e di transizione reciproci ci ha rese davvero libere.

Deborah Mega