Promemoria

Prima che il letto, prima che la lama
prima che il taglio, che l’inciso del periodo,
prima che l’anfratto della carne e le parole,
prima che l’accapo sul primo rigo, prima
di trafugare le rovine e il verso spezzi,
cada prima, molto prima.

***

DOPO CHIUDERANNO IL CIELO

Dove il margine

Vieni,
ti porto dove il margine vale la chiusa
e l’ombrello non ripara dalle ombre bagnate;
il chiasso alla lunga si fa silenzio
in barba ai suoni che ti appartengono.
Sono tutti pensieri
certi stupidi certi meno
ma tutti comunque dirottati
dal peso di una goccia.
Si stacca il mento quando vedi un fiore
anche quando sai non è per te.

***

La clavicola

Ti morivo sui seni
colando l’esilio di latta
dalle braccia gracili.
Mi ci mandava il volto dispiegato
due dita in bocca e il fiato.
Tu mi cedevi violenta nel passo
il dissesto degli anni
e sulla clavicola cadeva il gusto
di un’enfasi spuria.

***

Carne abrasa

La carne abrasa
ai labbri detterebbe cose assurde.
Non si ravvede scambio,
la poetica degli ormoni
sgocciola su tela e trama all’istante.
Non c’è altro al divenire, niente forma.
Là fuori solo dentro
le cose sono come sono.

***

EDIPO FIGLIO

Carne d’asporto

Teme il lenire sopra le costole
scavare al fianco passando vomere.
La carne d’asporto non cede
la ferita del tutto allo strappo.

***

Sono frutto del tuo seno mutilato

Sono frutto del tuo seno mutilato
un rigetto concepito dalla carne.
Quando chiama pasciuta e profumosa
l’erba vorrebbe assiderare
queste spoglie adulte d’orfano.
Proteso al cospetto di una fronda folta
mi si inietta sete mi si effonde fame
mi si spezzano le nocche sui guanciali
depravati e sadici delle notti,
e di giorno annaspo tra le cure
di pensieri infatuati di un’oscena tenerezza.
Custodisco ancora in petto, Madre,
il richiamo della voce infranta:
il tormento lasciato in dote
ed Angoscia promessa in sposa,
del tuo seno anche Lei escrescenza.
Nostra figlia, mia sorella.

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100mg

Prima di andare
hai lasciato del liofilo
fiore d’areola in confezioni
da 100mg sul comò.
Nutre il dosaggio e non sfama
la stanza di adesso, un vuoto
nel grembo.

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Il non detto

Tra le filigrane
di una lettera sguarnita
più pesante di parole cade
il non detto in spazi vuoti.
Al deserto delle mani
resta un debole d’inchiostro
sul richiamo all’ordine
il vomito.

***

Tu ti vergogni, Padre

Tu ti vergogni, Padre
di me che non ho saputo aspettare
di quando i giorni solcavano il viso
e le unghie fremevano a sangue
di me che ho baciato un arbusto
perché in autunno mi scoppiava il cuore
per la polpa di mela
che non ho mai leccato
per gli occhi tersi del deserto e dell’anima
che divorzia i respiri nel timore del torsolo.
Ti vergogni di me, Padre,
perché trafitta la tregua con una scure
sul cumulo di immagini
hai bruciato con uno spiffero
convulsioni di abbracci
scoloriti di lacrime.
Volevo ritornare nella pancia
senza l’ombra di un torto
ma ho smarrito la via di casa ho smarrito
il figlio forse l’uomo.
Padre, se tu sapessi quanto costa
il confino malgrado la rinuncia
se tu sapessi che il vento ha le labbra
tra i capelli e il calore tra le mani
potresti darti colpe ben più grandi
e su di me ripieghi
l’aberrazione del tempo al cospetto
dell’orgoglio tuo ferito
lo stesso per il quale sono taglio
al di là della carne ormai
amputata.
Abbi cura della mamma
dille pure
saranno le ginestre il filo spinato.
Dille pure sarà l’amore, il tuo più forte
di un figlio arreso.
Un figlio pallido muro di schiena.

***

UN SUSSULTO DI FALESIE

La Dama

Da qui si può solo andare avanti
con una presa obbligatoria
fino alla damatura
e poi ci si consente un passo indietro
quaranta mosse al massimo.
Ad ogni modo vince chi ci mangia

– mangiarsi è obbligatorio
noi, invece, si fa i vaghi
avanti e indietro in diagonale e in pari
chissà forse impari.

***

A me che sono tiglio

A me che sono tiglio
nelle fronde dei seni,
che visito il silenzio inalberato
delle premure,
che me ne resto assorto nello spiazzo
e non discosto la vista dal cielo,
e non maledico le nubi
mentre accolgo la pioggia.
Lassù, dove sta il mare
tra il fermo di queste pale eoliche
nell’attesa del soffio,
una cernita parapetto
la rocchetta,
porta il filo del tuffo nel crepaccio,
gli sciami sismici sotto queste radici.

***

Messa a dimora

Infine si asciuga la terra.
Seccato il nuovo solco dormiranno
nella messa a dimora le radici.
Fittoni o fascicoli, non importa:
altri mali si ricordano
in un lessico da cui liberarsi,
lo stretto necessario da un meno che parla.


Estratto dalla prefazione a cura di Giuseppe Cerbino

Messa a dimora è un libro che apre una ferita cauterizzandola col canto; il che vuol dire che con questa silloge Federico Preziosi innanzitutto affida il proprio dolore del distacco a una scrittura prevalentemente endecasillabica e metrica rimodulando in maniera inedita le conseguenze del rapporto edipico visto da un’angolatura geo-culturale invece che da quella resa nota dalla psicanalisi freudiana. Incesto e uccisione del padre, in quest’opera, diventano due momenti esistenziali legati a dinamiche di vita all’interno di un contesto territoriale preciso […]; ci troviamo al cospetto di una lettura “junghiana” che fa capire come “incesto” e “delitto” siano un topos che indica fasi nevralgiche di una intimità e di un esodo; in altre parole l’amore incestuoso con la madre va letto come legame profondo con la propria terra e l’uccisione del padre ne decreta l’abbandono […]. Non c’è crescita senza dolore per la perdita; è quanto si evince leggendo le liriche che compongono questa raccolta attraverso cui il poeta irpino combatte con la tentazione di non rinunciare a una protezione che tuttavia si rivela sempre vulnerabile (Vieni,/ti porto dove il margine vale la chiusa/e l’ombrello non ripara dalle ombre bagnate;/il chiasso alla lunga si fa silenzio/in barba ai suoni che ti appartengono).
Da tutto ciò, a mio parere, deriva la consapevolezza che innerva tutta l’intera raccolta: crescere vuol dire inevitabilmente abbandonare una condizione che riteniamo sicura per portarci verso lo xenos. Questa parola in greco antico vuol dire sia straniero sia ospite e questo a ragion veduta in quanto l’estraneo verso cui propendiamo nell’esodo è ciò che ci appartiene da sempre e nella cui “dimora” viviamo ancora prima di transitarvi. La poesia di Preziosi insiste per alcuni passaggi sull’idea che da sempre siamo abitati da una estraneità radicale anche in ciò che ci sembra intimo e familiare. […]. Questo libro è caratterizzato da un titolo indicatore della capacità di Federico Preziosi a sfruttare l’area semantica di una locuzione specialistica – ricavata, in questo caso, dall’ambito musicale – che egli lascia volutamente ambigua per introdurre un linguaggio maschile che si immedesima e si rimodula in quello femminile. […]. Dopo aver raccontato un luogo in fondo non suo, il poeta prova a condurre il lettore verso la sofferenza del distacco da questo luogo: dal dolore di una immedesimazione difficile, il poeta passa a parlare dell’esodo a questo luogo di cui mai si è appropriato davvero, eppure esso risulta fin troppo necessario alla convivenza e al rapporto […].
Il poeta irpino ci propone un lavoro poetico di ricerca ulteriore rispetto al suo libro precedente nel quale la versificazione si presentava più staffilante e con un ritmo tutto autoctono e personale quasi a caduta libera con uno stile teso a cercare una modulazione con il femminile. Qui invece il linguaggio è composto e ricomposto secondo una tradizione metrica precisa che prescrive soprattutto un metro “adulto” che non presenta più l’esigenza di un adattamento a un “mondo”; l’intento che in Messa a dimora prevale è quello di raccontare, con un linguaggio “radicato” e fermo, i modi dello sradicamento rimanendo perfettamente adeso alla radice della lingua poetica.
Questa silloge di Preziosi è un libro della maturità, del viaggio impervio verso se stessi ma soprattutto inevitabilmente è esodo da un luogo che però ci accompagna in ogni nuovo sguardo dell’Edipo che si vede trasformare in un giardiniere che cura qualunque orto e qualunque terreno. Messa a dimora racconta un “passaggio” fino a rivelarsi un libro della cura e dell’attenzione verso qualunque luogo si tocchi perché ogni luogo a noi estraneo è un luogo della nascita per altre persone. Uscire dall’Edipo e avviarsi a una messa a dimora significa appunto affrontare con responsabilità ogni rapporto umano a cui ci espone la vita.


Federico Preziosi (1984) vive in Ungheria. È fondatore del gruppo di poesia Facebook “Poienauti”, moderatore di “Poeti Italiani del ‘900 e contemporanei” e portavoce della Comunità Poetica Versipelle. Scrive di poesia per exlibris20 e Readaction Magazine, e si occupa della divulgazione di opere poetiche nella trasmissione web “La parola da casa” con Giuseppe Cerbino, e “Poesie di guerra e di pace”. 

Autore di Variazione Madre, edito da Controluna – Lepisma floema, i suoi versi sono stati pubblicati su antologie, riviste online e quotidiani locali e nazionali. Messa a dimora (Controluna – Lepisma floema) è la sua ultima pubblicazione.


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