Inverare l’invisibile che si cela tra e nelle cose è l’esito ultimo cui mira la poesia. Una parola che rappresenti le fitte ombre che si addensano intorno al mistero vince sul nulla e si approssima al vero. Ecco dunque situarsi, tra un niente e una menzogna, quel quid imponderabile che libera la voce del poeta e la ammanta di «parole necessarie ed esatte, perciò durevoli». Con questa sua ultima raccolta, Nicola Romano getta luce fra quei due poli che innervano l’intero discorso poetico, il nulla e la finzione, ambedue spettri di un reale imprendibile e sul quale comunque si agitano «la luce piena e le fittissime ombre, la spossante malinconia e l’intensità degli affetti, l’ironia affilata e i goduti sarcasmi» della sua sicilianità. Nelle scelte lessicali e stilistiche il poeta predilige l’impiego di una parola materica e ruvida, che si posa sul foglio con la levità di uno sguardo comunque abile a valicare gli aspetti gravi dell’esistenza e lo smacco di quel «sogno di assolutezza che ammala l’uomo e lo rende incerto e insicuro di quanto gli tocca e gli preme». Le parole di Romano si sollevano da «un letargo illogico», protese nel tentativo di risolvere l’enigma di un’assenza e così «brillare di senso»:

Tutto sta nel capire
dove mi sprofonda la tua assenza
se falsa noncuranza
o interna solitudine
è questo armeggiare
nel palmo d’un divano
tra un facile sudoku
e un po’ di vino
Con un sentore d’assurdo
risalgono canali a quel principio
che fa nascere il corso d’ogni storia
e le mani rovistano le sacche
di quei pensieri assorti ed intricati
come spighe di canne scarmigliate

ed un lamento scorre fino ai piedi
se tenera ferita è la tua assenza

La dimensione del ricordo ne diviene fonte sostentatrice: il poeta compie un salto a ritroso tra le «correnti di memorie», che spirano sullo sguardo facendo riecheggiare luoghi della vita oramai appartenenti a un tempo andato. Di qui il canto che attinge tenerezza:

Come delle risacche
acqua che torna
arrivano correnti di memorie
(folate che spalancano
finestre mal richiuse)

e fraseggiano sugli occhi
i luoghi mansueti dell’infanzia
le scene mute a casa dopo cena
le braci che mancavano agli inverni
e i goffi atteggiamenti
ai primi amori
Difficili i dettagli
ormai confusi al trito dei ricordi
ma tenero è quel tuffo nella sera
come l’abbraccio al padre
che è invecchiato

La parola poetica, in tal senso, è, per mezzo del ricordo, «un setaccio» che, pur accumulando perdita, infonde continuità a ciò che per l’appunto è andato perduto:

Sono la notte orfana di luna
quando le nubi ipocrite
spalmandosi sui tetti
tappano i bei lucori al firmamento
e sono lago
diventato pozza
per quei corsi finiti in altre plaghe
o per le piogge magre e ingenerose
che inducono secchezza alle ambizioni
Sono un roseto
privo di corolle
quando latita ai colli primavera
e non si fa rimedio per il gelo
che rischia d’arroccarsi nelle ossa
e sono cava
senza più pietrisco
erosa da quel transito furioso
di vento che defoglia e manda altrove
ogni aderenza che sembrava eterna

Sono il setaccio
di tutto ciò che ho perso

Dunque, il poeta raduna lontananze:

Urticante è l’attesa
ché aspettare
non è posa stanziale
sicuro una frenetica andatura
un conferirsi avverso
un correre da chi
dona un’attesa
mozzando lontananze
al posto suo

Nel contempo, la poesia è esperienza dell’erranza e della solitudine, di tutto ciò che si sedimenta in attesa di essere detto in parola:

Su lemmi di cartone
stanno smunte parole
tenute con lo spago
quando debole appare e senza voce
l’armonia che nutrire vuole un canto
già che sembrano stracci di pensieri
quei versi vagabondi
che stendono la mano per pietire
la provvida mercede d’un ascolto

Ha l’umido negli occhi la poesia
come le arcate gelide dei ponti
per le notti che passa solitarie
senza nessuno che le venga accanto
a spartire il calore d’un idioma
o a barattare sillabe in amore
che pane non daranno e né conforto
E resta come becco senza nido
se poi la gente
fugge le sue rime
e le fa compagnia soltanto un cane

Nicola Romano è, in poesia, un rapsodo, un vero e proprio cucitore di canti, che raduna insieme le parole e le loro ombre, posate negli angoli dimenticati della coscienza e dunque riesumate attraverso il lavorio continuo di una memoria che si riconosce nell’atto del mancarsi:

… e penso
che sia giusto confessare
che a mancarmi
è sempre una parola
alta e mordace
ruffiana del mio senso
una pezza che funga da rattoppo
al discorrere oscuro e sbrindellato
che anela a poche sillabe felici
Proprio quella parola
che sia insieme
risucchio e gorgoglio
come lavello colmo che si svuota
o botto che deflagra su nell’aria
e poi rimbombo da snodare in gola
Non conosce mai tempo
l’attesa al varco dell’unica parola
che sia rivelazione all’incoscienza
miele d’accenti alle giornate amare

chiassosa
come corda di campana

Il rapporto intercorrente tra il nulla e la finzione cui il titolo della raccolta allude, allora, sembra piuttosto fare riferimento all’impossibilità del poeta di restituire le cose nella loro totalità di senso, giacché la parola stessa ne risulta come un tradimento. E tuttavia, malgrado ciò, Romano non si arena affatto nella constatazione amara dell’insensatezza, preferendo piuttosto dare ascolto alle parole, perdute o dimenticate, da cui comunque si ingenera meraviglia, fini reali del fare poesia e dell’interrogarsi:

Guardando il firmamento
ed ascoltando il moto dei pianeti
ti raccolgo da un angolo remoto
come una fucsia pendula dall’ombra
e non importa se leggenda o mito
quel vago che racconta la tua storia
colma di grazia e di sapienza antica
se donna eri aura irraggiungibile
e ambita sete per gli spasimanti
Eppure altri garbugli
ed altri patimenti
inflitti con il segno della croce
fermarono gli accordi d’un pensiero
fino a ridurre in cenere parole
Vorrei ridarti gli occhi
la tua bocca
e ricomporre vergine il tuo corpo
per ascoltare un ultimo
grido di libertà firmato Ipazia

Pietro Romano