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Prima della devastazione.
Una lettura di 100 poesie di Franca Alaimo, peQuod 2024.

di Patrizia Sardisco

La mia lettura dell’ultimo libro di Franca Alaimo, 100 poesie, prefazione a cura di Alessandro Fo, peQuod 2024, vorrebbe tentare di intrecciare una duplice prospettiva: fare emergere quegli aspetti che fanno di questo un libro di poesia e non semplicemente una raccolta di versi, essendo a mio avviso ravvisabili gli elementi necessari a una tale definizione, cioè unità e progressione tematica, linee di continuità semantica, la presenza di un testo esordiale e di un testo di congedo, la presenza di poesie di poetica; proporre l’analisi di uno specifico testo da me riconosciuto come testo esemplare, trattandosi di un testo dotato di una propria autonomia ma che, se considerato in quanto elemento del contesto più ampio dell’opera e nelle sue connessioni con gli altri testi, mostra come l’intero libro vi “precipiti” dentro, vi sia contenuto, nel senso che vi si trovano condensati gli elementi salienti: i temi, l’attitudine alla intertestualità e le soluzioni formali e stilistiche, con particolare riferimento alla lingua, contrassegnata in Alaimo da una trasparenza, da un nitore tali da poter risultare persino ingannevoli e far credere all’occhio frettoloso che assenza di oscurità possa tradursi in assenza di complessità. Quella di Alaimo non è mai a una poesia percorribile solo sulla pura superficie ma, al contrario, e questa è forse una delle sue cifre più notevoli, la delicatezza della sua scrittura, quasi da bozzetto liberty, possiede invece spessore etico e tenuta estetica notevolissimi, in una consapevole, sorvegliata tramatura di temi e forma.

In apertura di 100 poesie è collocato un componimento che funge da testo esordiale, quasi fosse un sipario:

È la quinta Elegia
a farmi male al cuore
là dove dice: E tuttavia,
alla cieca, il sorriso,
come se d’improvviso
vedessi fiammeggiare,
prima della devastazione,
il sacro delle cose.
E così tanto fosse lo stupore
da sentire il pianto
inondarmi gli occhi
e confondere nel suo sale amaro
le figure del canto e del dolore.

Questo testo, conosce davvero la misura dell’abisso e una teatralità in orizzontale (un sipario che si apre) e in profondità (un fondale che si allontana), e come tale ha continuato a imporsi, associandosi nella mia percezione, quanto a questa teatralità che apre come un sipario un altro sipario, alla Madonna del Parto di Piero della Francesca: nell’affresco, due angeli posti ai due lati scostano un tendaggio, lasciando comparire al centro della scena Maria Vergine che, a sua volta, con un gesto delicatissimo, scosta la veste sul proprio ventre gravido, lasciando comparire il mistero che, in quanto tale è un ulteriore apertura, nuovo sipario che immette nello spazio ineffabile del sacro che si incarna, e così via, realizzando sul piano pittorico una stupefacente mise en abyme che precipita l’osservatore nella profondità di un universo sacro esattamente come a me sembra avvenga in questo testo di apertura (la poeta apre un libro, il libro apre un sorriso che, tra un sipario di fiamme, apre al “sacro delle cose” che si spostano in avanti, collocandosi prima della devastazione…).

La poesia si presenta in un’unica strofa ma può essere suddivisa in almeno due parti, coincidenti con la sospensione sintattica e con il diverso orientarsi dello sguardo.

Nei vv. 1-8, lo Sguardo è rivolto verso l’esterno e individua con precisione e fermezza (la voce verbale È’, posta all’inizio del verso, del testo e dell’intero libro è tonante, perentoria) un arco di orizzonte nell’orizzonte, la porzione di mondo svelata alla poeta dalla frequentazione della poesia rilkiana e, segnatamente, della Quinta Elegia, e ancora più in dettaglio, dei versi riportati in corsivo (E tuttavia, alla cieca, il sorriso) che aprono alla partecipazione empatica della poeta e del lettore (fanno male al cuore) mentre rivelano il nucleo incandescente del testo (del microtesto come del macrotesto): la visione epifanica, improvvisa, fiammeggiante, del sacro che delle cose è proprio, prima della loro caducità, al di qua della devastazione.

Nei vv. 9-13, quindi nella seconda parte, lo Sguardo è rivolto all’interno, e i versi prospettano una triangolazione tra stupore, dolore e canto, ponendo e risolvendo così anche una questione metapoetica: si tratta di un testo che ha sé stesso come contenuto, che contiene le ragioni della poesia. Lo stupore soverchiante al cospetto della visione appena esperita non elimina il dolore ma lo intesse nel canto, ve lo trasfonde, irreversibilmente, facendone figura e sfondo l’uno per l’altro.

Questo testo convoglia temi centrali per Alaimo, presenti nella raccolta e in genere nella sua poetica: la possibilità stessa del canto, e il canto come lode alla vita, anche colta nei suoi aspetti più dolorosi e drammatici, ivi compresa la morte come esperienza del limine, prefigurata riguardo a sé o esperita come evento luttuoso, reale o metaforico. Limine che, lo sappiamo bene, è concetto diverso da quello di confine, in quanto spazio percorribile, passaggio, territorio che accoglie metamorfosi, cambi di passo.

Soffermandoci ancora sul piano formale, in questo tentativo di leggere il libro attraverso il suo testo di esordio, osserviamo come dal punto di vista metrico sia ravvisabile una formula che mi sembra si riproponga nel libro, pur nella estrema variabilità dei componimenti nei quali si alternano versi di varia misura e laddove sono presenti forme metriche chiuse, queste scivolano quasi inavvertite, con naturalezza, senza forzature, per quanto spesso esse siano il corrispettivo formale della chiave della poesia, del balenare fulmineo di una agnizione (specie in posizione di chiusa, ma non solo). Per esempio, non è inusuale imbattersi in una coppia di settenari o di endecasillabi che fissano, talora anche allacciando una rima, un concetto cardinale, il cuore, o l’esito del pensiero poetante.

Questo primo testo, che propongo come paradigmatico, è composto in prevalenza da settenari ma tre endecasillabi compaiono nella seconda parte, due dei quali ponendo in rima due delle parole chiave (stupore- dolore), come a sottolineare, anche sul piano formale, l’esito duplice di quanto sperimentato dall’io poetico: il fondersi-risolversi nella dizione poetica, nel bel canto (reso appunto formalmente dall’endecasillabo), della scoperta della sostanza ultima (o dell’elemento primo) che è propria delle cose, cioè il loro sacro; e, insieme, l’opzione etica testimoniale del canto, il compito della poesia.

In questo testo come nel macrotesto non mancano le rime, benché disposte fuori da schemi ortodossi, che oltre a offrire una propria, originale musicalità al componimento, concorrono insieme alle assonanze e alle consonanze a consolidare sul piano fonico il dispiegarsi del tema: nel caso della nostra poesia esemplare, il movimento dell’io lirico, dallo stupore alla commozione al canto, dal disvelamento del sacro delle cose allo sgorgare, come un pianto, della parola poetica che ricompone in sé anche la figura del dolore. L’occorrenza dei suoni o-e, come disposti nella parola cuore, ad esempio, sembra riprodurre quello che altrove Alaimo chiama “il trotto del sangue”, un battito che pulsa lungo la poesia dal secondo verso fino all’ultimo. L’anaforico rincorrersi della congiunzione “e” (in due casi a inizio verso), ancor più se sommato fonicamente alla “è” posta in apertura, mentre salda continuità di pensiero e di respiro, conferisce a quest’ultimo un andamento via via più anelante.

Dal punto di vista stilistico, oltre alla figura della mise en abyme già sottolineata in questo testo, frequente lungo la raccolta è l’occorrenza di antitesi, ossimori e in generale di costruzioni antitetiche che colgono, in fulminee accensioni, le coesistenze, la tangenza delle traiettorie ma anche le aporie tra buio e luce, gioia e noia, speranza e disincanto: la cecità e il vedere, nel testo preso qui come modello, ma anche, altrove, cellule testuali e interi versi come gaia ferita, sorridendo nel pianto, la purissima festa/che è il morire a sé stessi, per richiamarne solo alcuni.

L’ossimoro è la figura dell’oscillazione del pensiero, dell’indecidibilità feconda di una illuminazione inattesa e ulteriore, come un “occhio di luce pura”, e pare abitare proprio quella zona liminare metamorfica che richiamavo prima, un luogo soggetto ai venti e alle maree.

Interi testi sembrano procedere in questa stessa direzione, quando per esempio mettono in scena una sorta di ingiunzione paradossale, sconfessando sé stessi e il proprio dettato. È il caso, per esempio, del testo che leggiamo a pagina 25 (i componimenti sono privi di titolo):

È nato il fiore dell’ismene
nel vaso di terracotta in balcone.
Un fiotto di stupore,
un occhio di luce pura.
Non lo nominerai.
Non chiamerai questa gioia.
Le parole vanno sempre altrove
e non sanno che farti cadere.

in cui la poesia – anche al cospetto della saggezza dell’avvertimento posto nella conclusiva coppia di decasillabi che segue e distende la crudezza tranchant del duplice divieto, dentro il quale peraltro risuona un’eco veterotestamentaria (voi non lo mangerete, non lo toccherete, recita l’Antico Testamento) – di fatto trasgredisce e oltrepassa il divieto a dare nome, a chiamare, nega la negazione, avvitandosi in un paradosso, affermando con la propria posizione ciò che nega nel dettato.

Riguardo all’intertestualità, essa si palesa in forma esplicita, come in questo caso, attraverso il corsivo con cui vengono riportati i versi inseriti nel corpo delle poesie, o implicita, introducendo elementi di eteronomia o rimandando a versi della stessa Alaimo (andò in frantumi il sacro delle cose, recita per esempio un verso di uno dei testi di “sacro cuore”, la raccolta pubblicata nel 2020 per i tipi di Giuliano Ladolfi Editore), impegnando la poesia di questo libro in una sorta di dialogo ininterrotto con sé stessa, con le questioni aperte dalla e nella propria poesia, oltre che in un colloquio a distanza con i testi dei poeti-anime guida: Rilke, su tutti, anche Pizarnik, Bonnefoy, Omero, tra tutti, e i poi i miti (Narciso e Palinuro, Pirra e Deucalione…), e i riferimenti veterotestamentari (per esempio, mi pare di scorgere in questo testo, nella figura del dolore, il riferimento biblico alle Lamentazioni anche se nel senso che assumono in Rilke, filtrati dalle Elegie), evangelici (libera nos a malo), che acquistano però talora velature ironiche tese ad dare conto di una levità costantemente perseguita e che sempre in Alaimo coabita con la densità.

Dal punto di vista tematico, la Quinta Elegia, richiamata nel testo di esordio che ho tenuto come paradigmatico, costituisce una chiave di accesso privilegiata, limpida e quanto mai precisa.

Il tema della caducità e della fugacità dell’esistenza (non sono che un’ombra/passata in fretta), così come il peso che ci grava in terra, rispetto al quale allenarsi (“a diminuirsi/a farsi poca), una religiosità sui generis, anche in senso panteistico, così come la possibilità stessa del canto e le sue ragioni, innestano le 100 poesie nella più ampia tessitura filosofica che tutta la poesia di Alaimo va componendo, qui in particolar modo visibilmente in stretto dialogo con il Rilke delle Elegie duinesi, da una parte, e con la poesia di Elogi (Giuliano Ladolfi Editore, 2018) dall’altra.

Il confronto – incastro con i libri precedenti, e in particolar modo con Elogi, consente di rilevare ulteriori elementi di complessità nel pensiero poetante di Alaimo, nel senso che rende più palesi trame d’oscurità, materiali spuri, linee di frattura, incrinature da cui “il nulla si fa strada”.

Non intendo affermare che questo ultimo libro sia il mero specchio di Elogi, che ne costituisca una sorta di rovescio semantico: sostenerlo sarebbe riduttivo e non renderebbe giustizia alla sua autonomia di testo perfettamente, compiuto, sul piano formale, come ho cercato di dimostrare, tanto quanto a livello tematico.

La lettura intertestuale rende più visibili le tracce di un percorso articolato e restituisce una profonda umanità all’io lirico, mentre dice della implacata fame di bellezza e d’amore della poeta, dei tumulti della biografia, di una orfanità imperdonabile (conosco da sempre l’abbandono, scrive Alaimo rivolta a Dio), insanata e risorgente nel rapporto con un Dio fanciullo che talora sembra avere più le fattezze e l’allegria di un Dioniso che non quelle del Dio Padre Cristiano (tu ridi e aspetti la primavera), e ancora le inquietudini, le illusioni e il disincanto, l’incanto ma anche il tremore.

Ulteriormente, la lettura intertestuale rende udibile il respiro delle Elegie duinesi e il dialogo fitto e inesaurito che Alaimo ha intrattenuto con Rilke per tutta la vita, e rende finalmente esplicita la ricomposizione tra le istanze opposte che urgono nella sua poesia, senza più però questa volta negare voce al dolore: le figure del canto e del dolore qui vengono incontro ricomposte, con- fuse, fuse insieme . Il canto di lode degli Elogi si completa qui con le Lamentazioni, le figure del dolore della decima Elegia, come se l’io lirico potesse finalmente riconoscere in sé stesso un dolore che brilla prezioso e che può, in quanto tale, farsi oggetto di lode (come avveniva in Elogi) ma, e qui è la progressione tematica che annunciavo all’inizio, anche di Lamentazione: di fronte al mistero del dolore e della morte, non rimane che la lamentazione ma non per abbandonarsi al nichilismo, non per soccombere alla disperazione ma per approssimarsi alla caduta attraversando quello spazio liminare, anche nel senso aperto dalla X Elegia. Scrive Rilke: “E noi, che pensiamo alla felicità/come ascesi, avremmo l’emozione, che quasi sgomenta, di una cosa felice cadendo”. E Alaimo mostra di aver fatto profondamente suo questo insegnamento, quando scrive: “Vorrei cadere”, “una foglia che ascenda lenta nell’aria/e ricadendo conservi della grazia/il ricordo. Più non sapremo”.

Prima della devastazione il sacro delle cose: prima della caduta è al di qua, non al di là: il che a mio avviso presuppone accettazione prima ancora che speranza. (È così?)
Leggiamo ancora Rilke, dalla IX Elegia: “e le cose che vivono nel trapassare capiscono che tu le lodi; caduche fidano che in noi, i più caduchi, sia ciò che salva. Vogliono che nell’invisibile cuore noi le si debba trasfigurare all’infinito.” La caducità non è assenza di vita ma la forma della vita terrena.
Essere qui, dunque. Essere stati qui: Alaimo lo esprime chiaramente nel testo di congedo. E cosa porta il poeta laggiù, nel regno del Grande Sonno, balzando come capretto dallo steccato, se non la parola che dice la cosa, la parola che spinge la cosa fino all’invisibile?

Patrizia Sardisco


Franca Alaimo esordisce come poeta nel 1991 con Impossibile luna (Antigruppo Siciliano), a cui seguiranno altre sillogi, le più recenti delle quali: Elogi; sacro cuore (Ladolfi Ed.); Oltre il bordo (Macabor 2020), 7 poemetti (InternoLibri 2022), Pentru Altundeva (Cosmopoli, 2022). Ha lavorato nella redazione delle riviste: L’involucro, Spiritualità & Letteratura, La Recherche. Dirige la collana poetica per le edizioni Spazio Cultura, Palermo. Ha pubblicato saggi su Rescigno, Luisi, Loi ed altri poeti. È presente in molte antologie, riviste e storie della letteratura (Insulari. Romanzo della letteratura siciliana, a cura di S. Lanuzza, Stampa Alternativa, 2009). Nel 2018 ha curato con A. Melillo l’antologia L’eros e il corpo (Ladolfi). È autrice di tre romanzi: L’uovo dell’incoronazione (Serarcangeli), Vite Ordinarie, (Ladolfi); La gondola dei folli (Spazio Cultura). Nel 2020 le edizioni Macabor le dedicano una monografia. È stata inserita in Dizionario critico della poesia italiana (1945-2020), a cura di M. Fresa (Società Editrice Fiorentina, 2021) e in Contemporary sicilian poetry (curatori A. Ilievska e P. Russo, Italica Press, New York, 2023). Gestisce la rubrica “Fulgore e poesia” per la rivista letteraria “L’estroverso”, diretta da Grazia Calanna.