Una poesia colta è sempre cerebrale? Possono conciliarsi erudizione e spontaneità creativa? L’una necessariamente esclude l’altra?
Detta, tra l’altro, questi interrogativi la lettura dell’interessantissima silloge di Stefano Schirò (la sua seconda), “Estofado de oro”, edita da Spazio Cultura.
Stefano Schirò è un giovane docente di Storia dell’Arte presso un istituto di scuola media superiore con un bagaglio di sapere umanistico notevolissimo, oggi fuori dal comune. E il suo sapere lo riversa nei suoi versi, nei quali abbondano richiami e citazioni di assai varia estrazione: tanti tratti dalla mitologia, altri da poeti greci e latini dell’antichità, altri ancora da classici più vicini nel tempo e persino da autori contemporanei; per non considerare i riferimenti all’arte figurativa e a sue opere e alla cultura arbëreshë, alle sue tradizioni e ai suoi riti ( Schirò è originario di Piana degli Albanesi); né mancano, nel suo originalissimo sincretismo culturale, rinvii al pop. La sua poesia però, a differenza di ciò che si potrebbe immaginare a fronte della sovrabbondanza di rimandi letterari, è tutt’altro che frutto di fredda elaborazione intellettuale e priva di un genuino trasporto che promana direttamente, senza tante mediazioni, dalla sua anima.
In una delle poesie della silloge, “Oscillum”, si legge: “Io ho il cuore dilatato / dalla bellezza”. E, probabilmente, in questi versi si scorgono il segreto e la fonte della sua musa. Schirò è così inebriato dalla bellezza – di cui rinviene i segni, oltre che nella natura, nella creatività espressa dall’uomo lungo i secoli con manifestazioni diverse – da non potere sopprimersi dal tentativo di irradiarne i riflessi nelle sue poesie. Tutto quel patrimonio di sapienza umanistica acquisito nel corso (peraltro non lungo) della sua esistenza non è in Schirò mero accumulo di dati e nozioni, ma energia vitale che ne espande la carica emotiva sino quasi a farla esplodere. Il suo trasferirlo nei versi per nulla è sfoggio di erudizione, ma insopprimibile bisogno di comunicazione. Ed è da “un cuore dilatato dalla bellezza” che trae linfa la sua poesia, non certo da un acrobatico esercizio d’intelligenza. Con risultati sorprendenti perché, se qualcuno a disagio con una versificazione poco incline alle convenzioni e ai suoi schemi e con un’ispirazione esuberante potrebbe coglierne un difetto di sorveglianza formale, dall’altro qualche volta la sua poesia stupisce per “espedienti” che sembrano invenzioni cerebrali e non – come in realtà sono – emanazioni del suo impeto creativo: così nel tautogramma di questi versi della poesia “Estasi”: “polpe parole potente passione / parlano di noi”.
Ammesso che Schirò possa definirsi un poeta “barocco” per la ricchezza di immagini che si accavallano e inseguono nei suoi versi e che ci trasportano “verso crescenti dimensioni di sogno” (come nota Nicola Romano nella quarta di copertina), non lo è alla maniera e negli intenti di Giambattista Marino. Per Schirò infatti non “è del poeta il fin la meraviglia” ma, al contrario, è la meraviglia che fa nascere la poesia: la meraviglia della bellezza e dell’arte (“l’arte crea il mondo”) e “la ridondanza della vita che coinvolge e sconvolge e tiene vivi i sensi” cui allude Franca Alaimo nella prefazione.
Poeta colto, coltissimo, perciò Schirò, ma – potrebbe sembrare un paradosso – quasi estemporaneo, “autore multi-sensitivo”, come nota Aldo Gerbino nella postfazione, la cui personalissima cifra stilistica si riflette in un’accentuata sensualità intrecciata a un misticismo sincretico, nonché in un cromatismo stupefacente.
La sua poesia è un arcobaleno di colori come nella tecnica decorativa dell’estofado de oro dalla quale la raccolta prende in prestito il titolo, e come i ricami, i merletti, il drappeggio delle vesti orientali e della tradizione arbëreshë.
Vi è eccesso di travasi multiculturali, ridondanza sensoriale nella poesia di Schirò (che ha tra i suoi molteplici temi anche la tenace resistenza di civiltà del passato che rischiano di essere sepolte da un’onnivora modernità omol0gante: “i vocabolari resisteranno ancora? / i vocabolari che neologismi conterranno? / i vocabolari conterranno anche le parole / patria umiltà Perdono?”)? La risposta dipende dal gusto dei lettori. Ciò che è certo è che la sua è una poesia d’intensa emotività e di sincera ispirazione.
Antonino Cangemi