Il peso dell’assenza (Napoli est brucia #2)

C’è una fortuna nell’essere corpo che vive
e con il corpo sentirsi scudo. Pietra che tace.
Solo l’aria copre il peso dell’assenza
quando la schiena è squarciata
da una banda di nebbia sottile
che avvolge le mani strette in preghiera.
La mia voce sembra trafitta
dalla lingua rossa di una dama.
La tua voce è un assillo
senza pace d’aurora. Mi chiama:
“Come ti spieghi il pulsare di una piaga?”
(l’ansietà del vuoto nel sogno verticale).
E’ ancora notte. Non c’è tregua sotto gli olmi
e mentre una luce d’avorio fende il buio
tu, il cielo, lo accartocci come una brutta copia.
Non tutte le ferite possono rimarginare.

L’orgasmo è un traguardo che ci insegue

L’orgasmo è un traguardo che ci insegue.
Come la morte ci coglie stanchi
e sdraiati in un campo di papaveri
aspettiamo il rovescio delle faglie
coperte da un silenzio di frontiera:
il perdono è un’onda senza memoria
che striscia orizzontale lungo il ventre
poi risale seguendo la sua ombra
mentre il corpo cede all’incoscienza.
Dieci, cento, mille trasparenze
sovrapposte appariranno ai nostri occhi.
Una scimmia che ci farà il verso
sarà la sagoma riflessa da uno specchio
e trame d’oro intrecciate sulla schiena
fino a stringere i fianchi in una morsa
per rendere l’aria, le mani, le vene,
la bocca, le ossa, tutto il resto.

*

Il tuo corpo ha radici profonde
nelle feritoie del costato.
Il tuo corpo s’intreccia
nello spazio bianco
che separa i feti
destinati a morire:
perché davvero non è questo
il tempo di piangere gli anziani
ma di scrivere al figlio
che mi verrà in sogno
a cauterizzare le ferite.
Piangere i morti di domani
è la nostra condanna.

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L’atto del fare poesia sta molto nell’assecondare quelle dinamiche spontanee, proprie di tutte le cose. Ogni azione ha un ritmo che prescinde dalla visione solipsistica dell’esistere. Il cattivo poeta scrive il suo nome al centro del foglio, con le parole che orbitano intorno; il bravo poeta è nauseato dagli spostamenti, è ossessionato dalla sua miseria. Chi scrive è nel mezzo di un mare burrascoso, “perlustra un mare di soggettività” avrebbe aggiunto Dario Bellezza. Il mare è in tempesta e lo scrivente sa che deve salvarsi, sa che l’acqua non è il suo elemento, eppure interagisce in una dialettica divina, anzi, estatica. Chi scrive sa sa che purtroppo c’è sempre un “fare” legato al “dire”, e un dire imprescindibilmente correlato al concetto di salvezza. Chi sta annegando sa che deve agire, al tempo stesso, però, sa che deve concedere ciò che il mare per sua natura, deve cooptare. Quindi, l’imposizione dello scrivere (che è atto volitivo) deve essere contemperata dalla modestia che porta a cedere il passo a ciò che – ben maggiore delle nostre caduche esistenze – s’impone. Si vuole nella stessa misura in cui ci si abbandona, per sopravvivere, per non andare a fondo. Si cerca il confronto, consapevoli della sua profonda e inesplicabile imparzialità. Si scrive per sottrazione, perché a emergere sia il silenzio. Perché la parola non èamica, è mezzo e limite essenziale.

Giovanni Ibello, napoletano di 25 anni è tesista in diritto ecclesiastico alla Federico II di Napoli. Lavora come giornalista pubblicista in materia di sport, ambiente e letteratura. Ha pubblicato poesie e approfondimenti critici sui principali lit-blog italiani: La poesia e lo spirito, poetarum silva, carteggi letterari e larecherche.it. Cura in prima persona i contenuti del blog: Leparoledigrace.wordpress.com