ora di luce

“E cosa devono vedere ancora gli occhi, e sopportare?” Rubo questo incipit a Franco Battiato. Lo rubo perché a Catania, in una o in qualche Catania, correre fa rima con futture. Sicilia reale. Ma quale? Quella dei chiodi per forza piantati a Nostro Signore. Là, dove la cattiveria sposa la lingua, ed insieme degenerano guai e guaiti incredibili, offese immonde, e figli non scolarizzabili neanche dalla Fata Turchina. La Sicilia dello scolo tra le puttane di San Berillo. Dei militari da svezzare, dei bambini “da imparare”, delle donne per forza da sottomettere e maltrattare. La Sicilia del percolato, dei liquami, delle scolature. Delle cose, che composte, no non si può, non rientra neanche tra i banchetti delle Fiera o di Scuola. Quella scuola che per troppi è solo la strada intorno o di ritorno da Cavadonna. O il contorno assieme alla fettina di cavallo. Da accompagnarsi ad una domenica, al pane cunzato, al delinquere per sentirsi vivi e parte del macello, che è bello, molto grande, più ampio di una singola e singolare macelleria piena di mosche. Perché queste mie parole dovrebbero riferirsi ai versi scritti da Enzo Cannizzo nel suo ultimo lavoro “Avanza un’ora di luce” per i tipi della catanese Algra editore? Non saprei. Ma so. D’avanzo che lui li apprezzerà. Come un mal di pancia o un mal d’Africa. Come un pettinatura che non sta. Quando il Viale per Piazza Europa è in mano al mare. E i cuti si fanno sempre più lisci, come le tasche. Come le carte. E come la sua parola che crolla con molta arte senza essere di parte: avanza un’ora di luce / finché carta non crolli. Il mio interesse per la poesia di Cannizzo, va però al di là di questo sguardo severo senza condanna, che giudica e rimpiange, che oppone la memoria della luce, ai lampioni rotti, la gioia del pratico pranzo elementare ai soldi che sempre mancano per il superficiale. Sono i suoni, il lavoro sulla parola, battuta e ribatutta sull’asse verticale che da Sant’Agata ammira Mongibello fare il pazzo. Ritrovo la dorsale dura e masticata dei nostri suoni, quelli dalla lingua siciliana, tramutati ed esaltati nel cozzare fonetico. Ed essendo di mestiere ne apprezzo il totale lavoro e sacrificio. Tutto gira se lo sai leggere. Sennò è inciampo. Una poesia piena di ostacoli verbali senza mai essere ostile al lettore. Con densità e significati. Come andar scoperti. O avere moneta che non puoi cambiare. Come un uomo in mezzo al suo cuore, sotto il temporale.

Sebastiano Adernò

I

gentile è la notte di marzo
una donna s’affaccia


e accosta gli scuri
lo scricchiolio dei mobili
confina la palude

II

avremo nostalgia anche di questo tempo sospeso
la pioggia è da sempre
il migliore degli alibi
da esibire al mattino
la piazza è dei pazzi e dei piccioni
mi dici sulla porta
serrata del giorno
ho sistemato i cappelli
per la fine dell’inverno

III

era il condominio gremito di sguardi
l’infame il ladro il baccelliere
l’orfano la guardia il biscazziere
l’ovvio l’insulso il grassatore
all’ambio incedevano i rotori
cavi gli occhi schiavi della folla
mercurio in corsa per la cavea
il verde il bruno il vaio
la mota il fabbro il mangiafuoco
l’aneto l’averno il rogo
cedeva la rosa alle nevi all’inverno

Avanza un’ora di luce


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