La poesia di Fernanda Romagnoli ci narra una parte di mondo sommerso, quello fatto di silenzi e ombre; della fine (“Morte, se vieni per condurmi via, / lascia che ombra su ombra / io ripercorra la gente. / In quest’incrocio di rotte / casuali, ci siamo incontrati / – fra vivi – così inutilmente”). Colpita da un’epatite durante la guerra e debilitata per anni, la Romagnoli vive un realtà alla quale sente di non appartenere e da cui esercita il distacco: imparare a rinunciare, imparare a dire addio. In poesia, dunque, spesso tocca le corde della malinconia e di una rassegnata accettazione della fugace transitorietà dell’esistenza. (“Prima o dopo qualcuno lo scopre:/ io sono già morta da viva”).
Ma non solo inquietudine. I versi di Fernanda contemplano la parola affrontando la materia: folle è appunto la tentazione dell’eterno, poiché in verità non siamo che graffi su di un muro storto.
Si scorge, inoltre, nel carattere della poesia della Romagnoli una certa consacrazione dei luoghi dell’infanzia con tono sommesso (“Ah, vento,/ riso di infanzia, resta con me stanotte. / Resta e prendimi, in gioia e disonore”).

Un’esistenza, la sua, vissuta ai margini, ma con lo sguardo rivolto fuori. C’è sempre, infatti, una porta o finestra nei suoi versi (“Per i viali i giardini e i davanzali / d’ogni finestra coltivai una gemma”), una rassegnazione, dunque, solamente apparente. Dentro l’anima riecheggia senz’altro quella voglia di affacciarsi sul mondo: osservarlo attraverso un vetro, captare ogni suono e battito di farfalla. Desiderio di libertà ed evasione, pregare quel “Dio” che simboleggia l’Altrove. La poesia come collante dei due universi: quello interiore che fa capolino a quello materico, unendosi in una danza tanto affannosa quanto necessaria.

Ritratto

Che vuoi da me, ritratto, ardente viso,
pupilla come l’ape del mattino,
guancia che sottilmente sulla tempia
sfuma in sorriso? Mi torturi invano
col tuo splendore. Nulla che si compia
rimane intatto: a renderti divino
era l’attesa. E questo volto umano
che m’affronta ogni sera dallo specchio,
ogni sera più nudo, prosciugato
sulle crepe dell’anima: io l’accetto.
Dunque perché il tuo palpito mi strazia?
Che vuoi da me, ritratto
di quand’ero ragazza?

Falsa identità

Prima o dopo qualcuno lo scopre:
io sono già morta
da viva. È di donna straniera
la faccia tra i capelli in giù sporta
che sùbito si ritira,
l’ombra che dietro le tende
s’aggira di sera,
il passo che viene alla porta
e non apre. Suo il canto
che intriga i vicini coprendo
i miei gridi sepolti. Qualcuno
prima o dopo lo scopre. Ma intanto…

Lei a proclamarsi non esita,
lei mostra il mio biglietto di visita.
Io nel buio, in catene, a un palmo
da voi di distanza, sul muro
graffio questa riga contorta:
testimonianza che mio
era il nome alla porta, ma il corpo
non ero io.

Ad ignoto

A te, che non sospetti ch’io esista –
A te, cui resterò sempre nascosta –
dalla mia ultima boa,
già immersa in freddi sorsi di campana,
aspettando il linciaggio
d’azzurri squali
a faccia in giù nell’onda –
invio di me quest’unico messaggio:
Con tutto il nulla t’amo
che intercorse tra noi – tutto l’immenso
che poteva intercorrere! Ma c’era
un universo in mezzo!
A te, sull’altra sponda
ignaro, approderà col fiato mozzo
questo tremante ramo
di me, scampato al viaggio.


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