
La cara amica e notissima scrittrice Maria Grazia Calandrone sostiene che la poesia è sempre politica.
Di fatto, se consideriamo che chi scrive, qualsiasi sia l’argomento trattato, è innanzitutto un civis radicato in un sistema socio-economico-storico all’interno del quale esprime una sua ideologia, (anche non possederne alcuna è una postura politica), sorgente di ogni pensiero, da cui si genera la parola, dobbiamo proprio dire che si tratta di un’equazione esatta.
E, tuttavia, più per la naturale inclinazione umana alla categorizzazione che per adesione alla più intima verità delle cose, siamo abituati a dividere la poesia in vari generi: lirica, epica, prosastica, civile, pop, videopoesia e così via, intendendo indicare i temi ispirativi e/o la loro organizzazione strutturale.
Ciascuno di questi generi poetici corre molti rischi, come ogni espressione del pensiero, laddove non sia forgiato secondo misura, accuratezza lessicale, senso del ritmo e coerenza formale, a cui aggiungerei una sorta di allure che lo distingua dalle altre voci costituendone quell’elemento capace di scavalcare il proprio tempo e portarlo più in là in una sorta di profetismo ascetico, che non ha niente a che fare, s’intende, con la religione.
Per la poesia cosiddetta civile, i tranelli più comuni sono da sempre la retoricità e il sentimentalismo. Il primo accade quando i poeti cavalcano l’emozione di un fatto di cronaca trasformandosi in giornalisti-poeti, il secondo è connesso al primo: infatti lo fanno per commuovere i lettori ed ottenere un facile e più largo consenso. Essi, in qualche modo, deturpano la poesia del suo scopo più prezioso: trasformarsi in un gesto etico, utile alla crescita di ogni società
Quando mi chiedono quale sia il fine ultimo della poesia, io rispondo che è quella di ricordare all’uomo di essere umano; e questo può farlo qualsiasi poesia che sia davvero tale, a cominciare da quella più bistrattata e difficile che è la poesia d’amore. E perciò non mi sembra un caso che il sottotitolo della raccolta Con nome e cognome di Maria La Bianca sia: “quasi sempre l’amore”. Esso ci invita a ragionare sul quasi sempre, che potrebbe significare due cose: più genericamente che, se l’amore cede, il male si afferma; oppure (e mi sembra un’interpretazione più consona a questa silloge) che il poetare dell’autrice non sempre muove da sentimenti positivi, visto che all’interno della silloge ci sono alcuni testi (pochi ma ci sono) nati da rabbia personale o politica, quali quelli sullo stupro o sui feroci meccanismi del potere.
Immagino anche che la loro collocazione nelle prime pagine del libro serva a stabilire da subito quella coincidenza fra l’io e il noi, o, meglio, quella costruzione dell’io come totalità, che inserisce l’esperienza personale del male in quella onnicomprensiva di tutte le altre vittime del male, che sono state uccise o hanno volontariamente rinunciato alla vita pur di opporsi ad un regime, a un sistema ideologico, a una condanna di giudizio.
Sfilano, uno dopo l’altro, con nome e cognome, questi morti in ogni parte del mondo, i martiri ignorati, come sempre, dalla Storia che racconta per lo più la vita e le opere dei potenti e che tace l’eroismo dei piccoli, dei poveri, delle donne, di quelli che sono detti “gli ultimi” e che in questi testi poetici diventano i portatori di valori come il coraggio, il libero pensiero, l’orgoglio morale, la fertile e giusta disubbidienza a regole ingiuste.
Non si tratta, allora, di fare emergere semplicemente questi personaggi dal silenzio e dall’anonimato, come per esempio, desidera fare in Spoon River l’autore Edgar Lee Masters (fra l’altro ogni personaggio di Spoon River ha una sua colpa privata da confessare), ma di raccontare l’infinita catastrofe determinata dall’ottusità e dalla ferocia di chi esercita qualsiasi tipo di potere: economico, politico, culturale, che spesso vengono separati anche se infine, a ben vedere e dire, dipendono l’uno dall’altro. Uomini e donne di Spoon River, fra l’altro, si raccontano, mentre quelli di Maria La Bianca sono raccontati anche attraverso un investimento emotivo personale, che trasforma l’obiettività spesso gelida della cronaca, in un introiettamento che la umanizza e la trasforma in un veicolo di cultura, qualore si intenda quest’ultima come un investimento volto appunto al colere latino, ossia coltivare l’humus-homo, che è, come scrive Leopold Senghor, «mettere radici nel più profondo della terra natia», ma «anche sradicarsi e cioè aprirsi alla pioggia e al sole, ai fecondi rapporti con le civiltà straniere», se è vero, aggiungo, che siamo chiamati ad abitare singolarmente in quel Tutto che è l’Umanità.
La poesia civile, dunque, come afferma una delle poete italiane, Alessandra Carnaroli, che la pratica da sempre, va letta «come deposizione, come voce che dà la sua versione del mondo, si posa sulle cose inattesa» e ancora: Poesia per deporre corpi/ armi corone e detriti sul fondo./ La propria testimonianza./ Essere testimoni di se stesso/stessa e dell’altro/altra.
L’autrice, infatti, collocando in un tempo preciso i fatti narratti, ambisce a costruire un libro di storia parallelo a quello di un comune manuale scolastico, strappando i vari protagonisti all’oblio, riconducendoli alla nostra memoria nella interezza di un’individualità irripetibile, non più condannata alla vaghezza e sparizione all’interno di un concetto anonimo di massa. Loro, infatti, hanno un nome e un cognome. Sono stati nella storia, sono nella memoria.
Franca Alaimo
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