*

Corridoi

In quanti corridoi ho camminato
                         a luoghi di passaggio destinata.
E nei chiostri dei templi.
Ma cosa ci facevo lì se il dio era fuori, nei volti vostri?

E in questo corridoio di vetro smerigliato ora.
Non si spezza. E l’unghia a scalfire la vernice, di là forse una pianura
di neve con statua acefala e gabbiani in volo.

E insiste l’anima unghia col suo fare misterioso.
Sì, forse anche di là c’è qualcuno a scalfire
                                         incessantemente. Tu, Assente?

E in corridoi di vetro ho camminato, i muri più duri.

*

La notizia

Correvo in sogno.
Portavo alla città in attesa la notizia della battaglia.
Io correvo nel petto di tutti.

Improvvisa la caduta. Lo smarrimento.
“Basta un respiro” mi dice l’ombra radiosa
china su di me, familiare. “Va’ ora”.

Non ricordo se abbiamo vinto o perso.

            “È questa la notizia da portare.”

*

Siddartha

Ciao Buddha    ha scritto qualcuno
sulla parete nella galleria
                           dove come inseguiti corriamo all’uscita.

Solo gli dèi salutano così gli dèi.
Ma tu, ragazzo, saluto mattutino, hai appeso la tua vela ai venti
e alle maree e vai allegro nella tempesta
a quell’eccesso che si chiama vita, un increspare un attimo il nulla
e più col grido che col canto ed è la vita.

Vado anch’io alla mia vita
risvegliata anch’io – i miei risvegli che non captano
l’ombra di ciò che siamo – pallido Siddharta
che esile ci precedi nella tua veste di cotone, le auto non ti sfiorano
non ti abbagliano i fari, e ora, uscendo nella sera, la sera orribile,
mi indichi qualcosa nel buio.

Come fanno gli dèi. E qualche volta la poesia.

*

Ape d’inverno

Sii lucida. Lucida e appassionata,
             ciò che viene vuole essere atteso.

Ma fra la notte ancora qui
e la luce fra poco      il confine meno scontato.
Non dire che il sonno colpisce sempre un attimo prima.
Non chiederti quanto distrugge la mano
che crea, è astuzia del sonno, rivincita d’ombre.

                           Tenditi mia vita, mia corda tenditi.

Fino a quando resisterai, funambola
in questa sospensione di mondi? Non basta al tuo giorno il tuo peso
il loro respiro sempre più debole
                                       l’allarme di questa città assediata?

No, non ti dirò di rientrare,
di chiudere porte e finestre perché l’ago segna tempesta
e inchiodare assi, riempire la fessura
dove il raggio penetra e scopre la polvere, quanta polvere
in un raggio, e lo intercetti col tuo corpo, scendono per lui
i morti e i non nati ancora, l’odore del vivere incanta.
E scendi tu volto splendente:

                     “un serraglio di sposi col suo volto”, Qohèlet.

E coprire il lucernario
dove guardano il Sole e Cassiopea e ora preme un cielo di rovina.
Mettere al riparo i semi, soprattutto quello
che sfugge a ogni nome, il frutto più bello. E poi controllare
le torce e le candele        percorrere e ripercorrere
la casa al buio, contare i passi
gli spigoli, l’asse che non tiene nella stanza

                                         che confina con le onde.

Preparare un mazzo di carte nuove
per la partita con l’Assente.
Non ti dirò di rinforzare gli ormeggi
se mai è rientrata lei
                                       errante, eretica, che ti assomiglia
                                                   ma no, non sei tu.

E avrà, come sempre, vela bianca o nera.

Sei così tu, mia vita, hai bisogno
di sentirti parte del tutto, e il tutto che respira

nel tuo volo di ape d’inverno.

*

La poesia

Dormi, mi dico. Lei la senti bussare
anche nel sonno. Esce da te, poi si finge alla porta.

Dopo anni di assenza torna all’improvviso,
chiede dove ha lasciato la sciarpa
                          e di seguirla senza troppe domande.

Questo non è vivere. Ma senza di lei non c’è vita.
E vuole essere attesa.

“Come dio?” mi chiede il venditore arabo
dal quadro, oggi non ha fatto affari, ha spento la lampada
all’ingresso della tenda. Gli animali dormono.
Si accinge a scrutare le stelle lui, e a prostrarsi.

“Come dio?” insiste dal suo silenzio grande.

Lei vive e muore in questa scorza.

*

Ida Vallerugo, Stanza di confine, a cura di Anna De Simone, prefazione di Pierluigi Cappello, Crocetti Editore, 2013

Ida Vallerugo è nata nel 1941 a Meduno (PN), dove ha svolto l’attività di insegnante alle scuole elementari. Ha esordito con una raccolta di liriche in italiano, La porta dipinta (Pan Editrice, 1968), seguita da Interrogatorio (Collettivo R., 1972). Ha iniziato a scrivere in friulano nel 1979, dopo la morte della nonna Regina Cilia, soprannominata Maa Onda. È nata così la raccolta intitolata Maa Onda (Circolo culturale Menocchio,  1997). Sono seguite le raccolte di versi in friulano Figurae (Circolo Culturale di Meduno,  2001) e Mistral (Il Ponte del Sale, 2010). Nel 2004 Franco Loi aveva inserito diverse poesie tratte da quest’ultima raccolta nell’antologia Nuovi poeti italiani 5 (Einaudi). Nel 2013 ha pubblicato la terza raccolta di poesie in italiano, Stanza di confine, con una prefazione di Pierluigi Cappello (Crocetti Editore).


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