
Mettendo al centro dell’indagine psicoanalitica «l’Es, come quell’inconscio profondo che ingloba conscio e inconscio, io e pulsioni, corpo ed anima, fisiologia e psicologia», il famoso medico e psicoterapeuta Georg Groddeck (1866-1934) non sapeva forse di inventare una medicina poetica (non per nulla i suoi scritti erano molto apprezzati da Sanguineti e da Auden).
Nessuna forma verbale sembra, di fatto, più avulsa dalla razionalità di quanto lo sia certa poesia (e tale è quella di Sebastiano Adernò) ubbidiente non tanto allo scopo di significare, ma a quello del dire per fare risuonare la parola, deviandola dal suo senso quotidiano, accostandola arbitrariamente a qualche altra, al di là di ogni legame logico, irrompendo come un frangisassi nella stratificazione delle regole grammaticali e sintattiche.
La poesia di Adernò percussiva e ossessiva, aggiunge a queste disubbidienze anche quello della spezzatura del ritmo. Più volte, infatti, il verso appare sminuzzato in piccoli frammenti: una sola parola, un sintagma, una frase minima, che, separati dal punto fisso, ne dilatano significanti e suoni, imponendo un riposizionamento del pensiero, che, di volta in volta, si trova costretto a ricominciare il suo percorso da un altro punto di osservazione.
È quasi una sorta di viaggio che preveda un numero imprecisato di soste e la cui meta non sia nemmeno prefigurata, perché quello che conta non è trovare un luogo e salvarsi, ma bruciare attizzando l’accumulo di tanti eventi memoriali, la cui aderenza alla realtà biografica, sebbene quest’ultima possa in qualche modo essere ricostruita nei suoi nodi essenziali, non ha nessuna importanza per il discorso poetico che la restituisce in personificazioni metaforiche. Sono quest’ultime che raccontano, in un sussegurisi concitato di ricordi, immaginazione e visione, tutte le ombre, le colpe, la rabbia, ma anche le tenerezze e i desideri sedimentati nell’inconscio.
Ed è come se tutto oscillasse da un’estremo all’altro, mentre chi legge percepisce, in un diletto perturbato, un’anima in vibrazione che cerca un impossibile accordo, con il mondo, gli altri e, innazitutto, con Dio (o, che è lo stesso, con il suo Es più profondo), ora malvagio e punitore, ora bestemmiato, offeso e in pianto. E si finisce con il credere che questa idea della divinità comprenda non solo l’insieme di quelle persone che hanno giocato, nel bene e nel male, un ruolo fondamentale nella vita dell’autore (il padre, la madre, una donna amatissima poi perduta), ma anche quell’insieme di strutture etico-politiche (nel solito connubio di potere religioso e Stato) che impediscono da sempre la felicità e la libertà dell’individuo, che ne frantumano l’originaria unità intrappolandolo in contraddizioni feroci fra l’anima e il corpo, la psiche e la morale, la singolarità e la massificazione.
L’energia che circola nel versificare di Adernò è quella che anima un teatro psichico abitato da quella dimensione alternativa, che è anche la fame e la sete di quanti amano leggere e scrivere poesia. Un’energia che carica ogni parola del non detto, di quel silenzio enigmatico di cui Sebastiano è maestro,
Eccole le parole sole, quelle che s’incastrano nel mistero del tempo, del nostro passare nella corrente della vita per poi essere annullati: “Mai”, “Squarcia”, “Ancora”, “Brucio”, “La lascivia”, “Sipario”, e soprattutto si conficcano nel nostro corpo come chiodi o, meglio, «fili spinati»; ed è proprio questo senso quasi violento della fisicità a precipitare nel misticismo, perché, se il Dio che sta nei cieli è remoto e inafferrabile nei suoi disegni e resta quello a cui si lancia l’urlo finale:«Mio Dio, perché mi hai abbandonato?», l’Uomo-Cristo, flagellato, deriso, inchiodato, tradito, che dona il suo corpo perché gli altri se ne cibino («E ora prendete il mio corpo/ di ragioni contorte/ (…). Prendetene e per il nome di Cristo/ mangiatene tutti.) è il dio terreno con cui possiamo identificarci come esseri di dolore e di amore, sfiniti dalle ferite e dalle cicatrici.
La scrittura di Sebastiano Adernò ha, insomma, l’ardire di scendere in una dimensione spirituale non addomesticata, non scissa dalla lascivia dei sensi, in quell’arcano della psiche in cui nulla è stato ancora giudicato, in quella interezza dell’innocenza infantile prima della cacciata, prima dell’esilio, prima della condanna a morte: è da essa che ritorna «con un paio di particelle spaiate grattate da quel bordo d’ignoto» come scrive sulla bandella di copertina l’editore Gaetano Giuseppe Magro, donandole come cibo concretamente sacro.
Franca Alaimo
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