*
Da una parte all’altra del vivere
giriamo come pazzi
condannati a sostenere il cielo
con tronchi di polvere.
La voliera fra nascita e morte
curva come un cerchio.
Nella grotta della mia natività
una luce imbianca paglia, scalda la roccia
lì vado spesso e piango
nulla è mai stato così vivo.
Guardo l’inizio spaccare
una faglia fra la madre e il buio
due torri storte lasciano
alla quasi notte
la precisione blu dello splendore.
*
Nei giorni c’erano cieli bellissimi
tutti con il piede appoggiato al muretto
varcavano confini, volavano schiaffi
uno sputo alla pioggia
l’esser soli di baci ne riceve tanti
ci vuole quella stranezza che girava
fra i tavoli di una discoteca
quel venire dentro le maniche
che solo il freddo conosce il brivido
ci vuole un cielo solo tuo
un cielo peso sulla spalla
con i suoi cementi, le pozze piccole
quel tramonto di gamba
grossa che gira con la palla intorno al sole
ci vuole quel briciolo di fuoco tuo
che chiede solo di cadere
come una cantilena nell’oscurità
e le calze il vento le lascia
per qualche minuto
dondolare vuote.
*
Il fresco della quasi primavera
si posa come una tovaglia
rido al tuo restare fermo
e tu fai il gesto del pinguino
giri su te stesso
come un pianeta in agonia
o una gioia che gioca l’asso
fra me e l’universo.
*
Tanti non hanno più la primavera
fra le cose le bucce
gettate nel secchio
le tapparelle alzate a metà.
Restano faccia a faccia con la sera
mangiano su cumuli di anni
infilano parole sotto tavoli che ballano.
Non hanno la primavera
fra i tegami, dietro le tende
non dicono l’aria ha vent’anni e scendono.
Chiudono la zip, girano porte d’autogrill
la notte è un teatro greco abbandonato
gli occhi ruvide pietre dimenticate dal pianto.
Le stelle a testa bassa fanno la maglia
intrecciano il vivere, il morire.
Le punte fredde di quei ferri
mi pungono la schiena.
*
Ci vorrebbe proprio tutto
il tempo di cucire un bottone.
Quel fermarsi
in quel punto della camicia
su e giù con l’ago
e il filo lungo che va in alto e scende.
Quel andare al di là e tornare, basterà?
Il viaggio di una madre
il puntino luminoso della sua mano
che dal cielo scende
e sale un filo che fra le dita
sembra attraversare niente.
Io ti avevo stretto la mano
nella panca della chiesa dei Servi
sentivo che piangevi
non sapevo come ricucire
il fiore sdraiato del tuo respiro
con tutte quelle radici al vento.
*
Francesca Serragnoli, Aprile di là, LietoColle, Collana Pordenonelegge, 2016

Francesca Serragnoli è nata nel 1972 a Bologna. È laureata in Lettere Moderne e in Scienze Religiose, e insegna negli Istituti Superiori. Ha lavorato presso il Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna fino al 2007. Collabora con il Centro Studi Sara Valesio. Ha pubblicato le raccolte Il fianco dove appoggiare un figlio (Bologna, 2003, nuova edizione Raffaelli, 2012), Il rubino del martedì (Raffaelli, 2010), Aprile di là (LietoColle, Collana Pordenonelegge, 2016) e La quasi notte (MC Edizioni, 2020). È stata tradotta in varie lingue, suoi testi sono apparsi in varie antologie, tra cui Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004) e Jardines secretos, Joven Poesìa Italiana (Sial, Madrid, 2008).