*

Aubade

Il passo sciancato del vento tra le foglie
è simile a quello del mio amore è simile
alla morta farandola che i gusci degli insetti
danzano con le immagini dei ragazzi col piercing e l’aritmia cardiaca
negli specchi dei bar che chiudono alle quattro del mattino
quando tramontano gli occhi imperturbati della notte
gelidi sfaccettati occhi di mosca.
È ottobre:
il vecchio dio cieco ci vede come ombre.
Qualcuno smonta il turno con le ambulanze e i camion
della nettezza urbana, e il grido
che annuncia l’alba pare di un uccello
invece è il tempo che piange ininterrotto

*

Non si ritorna mai, non si ritorna.
Ciò che è lasciato è lasciato, il libro aperto
a pagina cinquanta, i due duellanti,
le tazze vuote sul tavolo e lenzuola
disobbedienti e tristi.
Non si ritorna mai, percorri
i viali trasformati in illusori
gioielli d’ambra, oreficeria autunnale,
nel trench sgualcito da una notte ventosa
e mai pacificata,
apri la porta di casa e come sempre
non è già più quella la tua casa.

*

Monadi nell’autunno del 2020

Portando sul capo la corona, api ronzanti, firmamento
di spine, io spesso cerco
le otto stelle del mio amore, l’uomo
che scrive, quattro stelle la sedia quattro
la macchina da scrivere e lui fluttuante nebulosa
nel cosmo speculare a questo di monadi intoccabili.
Piove, novembre ha fretta di sparire, l’angelo
del gelo spoglia i platani con dita smaniose e nelle pozze
alla fermata del sedici due donne uscite dal discount
attraversano il viale frastagliate e capovolte
in un esistere altro, sosia o gemello,
di questo più labile forse, o viceversa. 

*

Le piccole stazioni hanno due binari
arrivi o partenze chi può dirlo, il tempo,
il vecchio angelo seduto
su una pietra a Staglieno, il tempo
non sta su un piano cartesiano
Per questo ora mi dici, qui, nel tuo cappotto fuori taglia,
nella sala d’aspetto della stazione di Verbania, mentre
due ragazzi sonnecchiano, la testa sullo zaino,
Temevo il freddo ma fu il calore a togliermi la vita
qui me lo dici ma senza partire né arrivare, solo
scorrendo fuori dallo spazio, oltre quest’erba fra i binari
diafana, le nubi spinte dal lago verso
le cave di marmo palissandro, scorrendo

solo nel tempo come fa la musica

*

Prendiamo un caffè? sento la tua voce
arrivare rugginosa di salsedine
in un bar a Camogli, e sono
di nuovo nel gennaio del novantasei.
Un vento cattivo scalcia un mucchietto d’immondizia
nel vicolo del porto, mentre le triglie danzano
nel magazzino del pesce il loro spettrale minuetto
e si fa beffe di me il primo lampo,
quello che ammonisce.
                              Forza, coraggio, su, tutto finisce
pioverà presto, sui gatti e sulle apparizioni
e non sarà più possibile distinguere acqua da acqua.
                                         Metterò in tasca una pietruzza
raccolta sulla spiaggia, e la porterò sulla tua lapide,
o immagine graffiata di raucedine.

*

Valeria Rossella, Quello che vedo, Interlinea, 2021

Valeria Rossella è nata nel 1953 a Torino, dove è tornata dopo un lungo soggiorno romano. Tra le sue raccolte di poesie L’anima del violino (Galleria Pegaso Editrice, Forte dei Marmi 1996), Il luminaio (Crocetti, Milano 2003), La città di Kitež (Aragno, Torino 2012). È anche traduttrice dal polacco: ha curato tra l’altro la versione di un’ampia scelta dell’epistolario chopiniano (Il Quadrante, Torino 1986) e, di Czesław Miłosz, premio Nobel 1980, un’antologia di poesie (La fodera del mondo, Fondazione Piazzolla, Roma 1996) e il Trattato poetico (Adelphi, Milano 2011).


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