tutta la terra che ci resta - silvia rosa

«Ben pochi sanno ancora che cos’è un / albero. Le radici abbarbicate, acide, nere, sprofondate / a delta nel corpo della terra, il / tronco, i rami e i fogliami, e le / famiglie innumerevoli dei fiori, / estinte, ora, e i frutti colmi, pesanti, che erano / cibo, la buccia / tesa, la polpa ruvida, il nocciolo» (Giuseppe Conte, L’oceano e il ragazzo, TEA 2002); con queste parole Conte denunciava, già decenni or sono, la perduta intimità con le cose naturali che un tempo erano scenario e nutrimento all’umano.
Silvia Rosa nella silloge Tutta la terra che ci resta (Vydia Edizioni, Nereidi, 2022) si pone similmente, ma va oltre, in un arduo compito: descrivere l’inconosciuto che, come una metamorfosi kafkiana, sta trasformando in modo scivoloso ed elusivo il paesaggio e i suoi abitanti in congegni innestati, apparentemente coerenti con proprie precedenti attitudini ma, nella realtà, mutati in insondate profondità del codice identitario.
La cronaca storica di cui Rosa si fa testimone è diligente, circostanziata: un ambiente addomesticato da facilitazioni tecnologiche, apparentemente reso docile alle nostre pigrizie, mostra ora nel proprio materiale genetico tutti i ritocchi, i filtri e le proficue trasformazioni che vi abbiamo inserito: come trasfigurata, ora, da sequenze nucleotidiche interpolate, la Terra con le sue creature si mostra infetta, ibridata, e s’impenna in un ritorno elastico verso l’operatore che di tali ingegnerie è l’avventato artefice.
Avvenimenti di scambio e scarto: sostituire l’esistente con qualcosa di immune a tempo e spazio: collegamenti planetari istantanei, interminate conservazioni e perfezioni, la perfetta utilità e garanzia; ma, nell’universo esonerato dal difetto e dal degrado, ecco lo scarto dell’inautentico, e, di fronte alla cosa spuria, il male struggente della nostalgia: «Capita a volte la planata panoramica, con sobbalzo, / su distese di parchi artificiali poco illuminati, / o il microdistacco della retina, in controluce, / quando si ricordano le estati inondate di mare, / la caratura dei volti amati, il sapore del gelato / alla fragola nel passeggio serale affollato / di accenti».
Il creato, con l’accondiscendenza del giunco, si è lasciato piegare; ma, con la stessa tolleranza a tempo determinato, ora chiede conto: codifica per le triplette interpolate, dandoci al giorno bionici e ineccepibili, gli occhi come «palinsesti», «monitor», o come balconi di grigi falansteri, «giganti cenerini» puntati al 5G; le mani in polietilene, i corpi virtuali che lampeggiano in amplessi cartoon, oppure divenuti guaine «residuali», ridotti a «stelo verticale», «lo sguardo curvo / ripiegato su di sé, fissato in un remoto punto».
L’ossessione primigenia dell’uomo – cibo, calore, conservazione – ha conosciuto in prima istanza il rivestire, coibentare, compartimentare a scopo protettivo e abitativo, ed è poi scivolato nell’allestimento di braccia e intelligenze vicarie, per ottenere agio e produzione in serie. Ma, via via, la macchina del soddisfacimento dei bisogni ha mostrato tutto il suo momento inerziale. Categorico, ora, mantenere acceso e in corsa il marchingegno: ogni indotta esigenza è un atto creativo necessario al sopravvivere del sistema, che conosce sofisticazioni miniaturizzate, microchippate e impalpabilmente digitali ma ha, nell’avanzare, il passo della ruota di pietra: «Manca profondità a questo andare, / uno sguardo d’insieme, il talento / di sopravvivere alle lesioni del buio»; e ancora: «sebbene i giorni scorrano in sequenze / come disposti su un rapido nastro / di montaggio, assomigliano a passi / impigliati a morte lungo confini sbiancati / di fresco, attraversamenti, svolte, traiettorie / di vento che portano in luoghi invisibili: / una radura annebbiata, uno sfiato / di carburante, un inferno di eternit e plastica, / un covo umido in cui svapora il tempo / lasciando esposta la nudità della perdita».
Per ogni inadeguatezza o necessità, una nuova tecnologia: era questo agli albori; ma ora che le urgenze primarie e secondarie – in una certa fetta di mondo – sono da tempo esaudite, la situazione si è fatta palindroma: è necessario instillare nuove forzate penurie e occorrenze, reali o immaginate che siano, per alimentare l’ideazione; accade così che le facilitazioni, con i residui che ne derivano in forma di scorie solide o comportamentali, abbiano invaso ogni spazio esterno e interno all’umana corporeità, rendendo la specie eletta in fuga da sé stessa, e superflua al cosmo: «Ibridare le arterie con vuoti pneumatici / a portata di oscurità, anestesia generale / in luogo di ogni emozione, evolversi / in direzione di un pensiero efficiente, / puntare diritto alla meta, poco distinguere / le differenze tra vita morte sopravvivenza, / pensare in concreto, abbandonare / il fardello dei sogni, predisporsi a essere / ai minimi termini – modello base – leggeri / quanto uno sputo di cenere al vento».
L’umano ha fatto a lungo retorica letteraria e cinematografica di una propria possibile sparizione puntiforme e assoluta, un’estinzione glorificante come quella dei dinosauri: una rinnovata epica di sé stesso, in versione di onorevole catastrofe; ma, più probabilmente, il contrappasso di questo suo insinuarsi subdolo nel selvatico sarà un’ibridazione che ne modifichi gradualmente l’identità, fino a renderlo tossico; una pena comminata con ironia: l’osmosi progressiva con i prodotti della sua mente: «Così veniamo al mondo / – o scompariamo? – / soggetti all’azzardo degli eventi / fra scorie di arenile e uranio / improvvise fluorescenze, scheletri / antropoidi e Intelligenze Artificiali, / assomigliamo alle falene Saturnia / e Cobra che infuriano le ali, confuse, / quando scambiano la luce al neon / per un destino luminoso d’astri».
Ogni cosa che si immette nel creato, sembra dire la poetessa, ritorna in formato visivo, sonoro, ondulatorio, modificando la fonte stessa di immissione à rebours.
Perché, nel processo di autocreazione del mutante, manca la programmazione consapevole: sembra più un procedere per estro e capriccio, guidati da pulsioni basali mai sopite. La meccanizzazione e digitalizzazione rimane pur sempre, nella maggioranza dei servizi offerti, al servizio del soddisfacimento di istinti originari – prevalenza, autoaffermazione, iper comfort – acuiti nella connessione digitale pervasiva e totale, e quasi mai filtrati dalla dovuta consapevolezza etica o maturità emotiva; con l’aggravante che la creatura eretta pare dotata di inarrestabile ingegno, quando applicato alla téchne.
Se, nell’animale, a istinto risponde natura, con catene alimentari, rigidezze climatiche e selezioni filogenetiche che paiono emanate da una sorveglianza taciturna, protratta e trascendente, l’uomo fa del proprio intelletto abbondante e opaco un imprevisto che inceppa il meccanismo della legge di necessità apparentemente a suo vantaggio, eppure rischiando di sovvertire quell’equilibrio limitante che gli era altresì custode.
E, infine, l’ineludibile: il vivo fluisce, muta, si deteriora; l’esito innominabile della vita è uno solo, e, benché ignorato, continua a gorgogliare in minuziose e pazienti idrografie sotterranee: un dissesto idrogeologico ancora più doloroso, perché negato quotidianamente nelle allestite perfezioni plastiche, nelle onnipotenze digitali, nelle trionfali progressioni di accumulo del capitale.
«Però la morte respira in ogni cosa»: l’illusione di essere protetti e salvati dal sintetico è amarezza quotidiana della conscia ipocrisia: il «quasi dolce» di sintesi, prodotto in laboratorio, che non consola ma impensierisce, perché, nell’ottenebrare, tiene sospesi e in bilico, sul ciglio del vero: un epilogo che cova, anch’esso meccanizzato e intriso di metalli pesanti: «una fessura sottile / che corre lungo la nostra / esistenza, fino al crash / nel DNA della cellula, / puntuale o in ritardo altera / la postura da bipedi, / confonde l’arrivo con / la partenza: aspettiamo così, / pensando la fine come / uno sbuffo d’aria umida / che sa di piombo e di nichel».
C’è, in Rosa, un sentore degli scenari di Don DeLillo: nelle ambientazioni tossico-industriali, nella innominabile paura sotterranea della fine, nella ricerca di vicarie trascendenze racchiuse in ologrammi digitali, nelle manifestazioni elettriche di presenza, nelle nuove bellezze e devozioni dal retrogusto contaminato; gli inediti purpurei tramonti chimici, incendiati da fughe di polimeri volatili sconosciuti, che iniettano nell’atmosfera adulterate, incantevoli apparizioni visive, con il ronzio costante del rumore bianco.
Tutto è codificato numericamente, persino il colore delle foglie, ma c’è uno scarto continuo tra la perfezione statica del diagramma e l’individuo che nel teatro del vero sbanda e si dibatte.
L’essere umano è ormai un androide colonizzato dal sintetico: organi che mimano gli apparati tecnici e non il contrario: il mondo che abbiamo voluto rientra in noi dandoci la sua forma a ritroso, e siamo plasmati dalle nostre emanazioni, tra incertezze corporali, atavici timori e catalogazioni statistiche, segnati da emergenze pandemiche e sofferenti di forzate, antisettiche separazioni: «Le periferiche dei nostri volti sono / allineate per dimensione di globuli bianchi / e anticorpi. Sembra che attendano di sfigurarsi / in apparizioni, sostituirsi ai neuroni, / alle braccia, alle mani, convogliare / le nostre visioni in dispositivi di protezione, /integrarsi nelle rientranze molli dei nostri corpi».
In più, le mappature quantificate non eludono la natura delle cose, il nostro è solo un piano cartesiano, un reticolo interpretativo che non flette; si avvicina, piuttosto, al reale per approssimazione, deformandolo. Il vivente continua a cercare ciò che gli sia simile, nella fragilità, nel calore di uno sguardo, di un timore ingiustificato, di una malinconia: «Quanto rimbomba, / dall’urna cineraria dove l’abbiamo riposta / con i resti della disaffezione che circolano / invano, una moneta fuori corso a raccontarci / di un’epoca in cui aveva ancora senso toccarsi».
La postura di Rosa, qui, è il coraggio di riportare: lontana dal tedio didascalico, è pur nella assoluta precisione semantica, e nella integrità di una narrazione che è resoconto individuale e collettivo insieme: «La progressione del grigio è compiuta / – guarda – il nervo ottico è un ingranaggio / larvale, frastagliato e composito: ora possiamo / osservare in uno schermo HD il simulacro / delle nostre esistenze, scrollarci di dosso / lo strappo della nascita, in modalità multifocale».
Viene alle labbra Antonella Anedda, che, in necessità parallela, da luoghi glaciali sceglieva la parola con patimento, coltivando l’ardire di tenaci tenerezze: «Accogli, scostando l’osso che ti sbarra il cuore, questo angolo di pietra. […] Non cortili di mare ma ballatoi / ferri che annullano la quiete. / Da loro imparo. / A non riporre oggetti / a spalancare ceste […] Tu lasciami l’inverno / e un osso a frusta nel corpo / per accogliere in piedi ciò che trema» (Residenze invernali, Crocetti, 1992).
Ma se Anedda, magistrale, è qui scarna, nel delimitare un gelido ossario ad avamposto di concavità mistiche, verticali, Rosa, pur nella multicromia fluo della contemporaneità, pur nella «profusione», riesce ugualmente, con risolutezza, a trasmettere ogni desolazione, chiamando a raccolta «generosità di linguaggio» a generare «estese impressioni sensoriali» (come Grasso, in prefazione): nella via impervia dell’attuale, il muscolare sforzo di estrarre quelle poche gocce di autentico che sopravvivono nei recessi più intimi e soffici della rinnegata umanità: il volto, il tocco, il ricordo.
E la parola. Che, ancora una volta, tra le funzioni umane, è quella che più difficilmente perde potere: «Bisogna essere fedeli alla visione, e individuare subito il varco. Rosa lo ha incontrato, immaginando dapprima la sua struttura, poi scrivendolo nel patirne l’attraversamento» scrive sapiente Grasso; ed è così, nel ritmo concitato denso di immagini, nella parola esattissima, nelle subitanee svolte di senso che tengono desti e contusi, che la poetessa riesce nel suo intento.

Di fronte a queste urgenze, la necessarietà di certa altra poesia esistenziale impallidisce: se è vero che le commozioni e gli sconforti del cuore non conoscono nei decenni deterioramento né archiviazione, è pur vero che lo sfondo in cui le anime si trovano a fluttuare, avvolte negli involucri del corpo, via via scontorna e muta, rifluendo in scenografie nuove; e qui, con vista nitida tra cose nebulose, con intenzione salda proprio dove la modernità ha reso inerme e pavida ogni volontà, la parola di Rosa è una prua che fende il reale, e, nello scandire dei versi, si fa carico di un tentativo di ristrutturare e aggiornare le relazioni tra le cose, in pienezza di poiein.
La tentazione sarebbe fuggire in bolle di universo che forse non ci sono più; ancora Conte: «Dimenticare città, nomi, desideri / di uomo: voglio solo fiorire, rivivere, io / non più io, ibisco, acacia, / conca aperta e tremante di un anemone. // Avere piedi e nodi d’erba, io / non più io, mani guantate / di germogli, ciglia nuove blu, di / scorza il torace, spezzato e vivo».
Ma Rosa qui non cede; attualizza e segnala con esattezza perfetta, secolarizzata, i nostri comuni cordogli, e si fa, nella dimora poetica del grido individuale, messaggero di allarme universale: un mondo protesico, artificiale si sta sostituendo, con l’attitudine dell’asepsi e della psichedelia dell’eccesso, al teatro naturale e originario. Una riscrittura robotizzata che fugge dal biologico, ridando alla luce il reale con lucidità metalliche e cromie ipersaturate. L’oggetto meccanizzato, chimico o digitale s’insinua nel vivente col pretesto di dare agio e aiuto, ma, non avendo difetto o impermanenza, diviene un conglomerato di perfezione monadica che evoca soltanto nostalgia.
La denuncia allora, nella poesia profondamente politica ed esistenziale dell’autrice, come primo passo. Un raccontarsi che è preciso e inerme, come ogni coraggio. E infine, un’ipotesi: che non sia, la via per rivedere il paesaggio, proprio il gesto di desaturarne le tinte, e lasciarne uscire il vero grigio, i silenzi, le incompletezze. Nell’assenso al difetto e alla mancanza, una possibile via: «punto piccolo / di fuga per non dimenticare / di fiorire lungo la strada / del ritorno».

Isabella Bignozzi

Da Silvia Rosa, Tutta la terra che ci resta (Vydia Edizioni, 2022)

Viviamo in gabbie stile hi-tech,
con soffitti pseudo interstellari e un dedalo
di ferro e acciaio, in cui lacerti di discorsi
viaggiano tra filari di cavi. Sfregano contro
indifferenze cosmiche, stridono di indolenza,
si capovolgono in giravolte meccaniche
i cimeli del vecchio mondo, ora in disuso.
Dalla preistoria delle prime capanne di paglia,
del paravento di tende come un intonaco alzato
alla schiettezza del nido, ricordano l’architettura
difettosa dei corpi, quel loro disfarsi, uno sbiadire
costante e inevitabile. Ma se opponiamo gli scudi
dei bit, qualcosa di noi resterà anche dopo
l’assedio della carne, noi ci eleveremo più in alto
della trasparenza al quadrato che ci osserva
col suo lanceolato occhio infrangibile,
non conosceremo più l’attrito degli equinozi,
l’usura dei giorni che ci guasta le fondamenta

***

Aeroplani gluten free solcano il cielo tellurico,
l’antracite si screpola a 30000 piedi d’altezza
in nano corpuscoli: noi guardiamo le scie
da dietro un display per ritrovare la rotta
che risalga le nostre certezze, ma nulla,
il volo ha una spera che affonda e tiene
incastrata allo stomaco la cellula sinistra
della nostra coscienza, il rombo si inalbera,
la propulsione spinge avanti raschiando fondali
di cirrocumoli e succhi gastrici – rasoterra –
il decollo è un grano di sale che va per traverso
in questo mare magnum che vira a tormenta

***

In queste sere il cielo è amaro
venature platino lo attraversano,
sentiamo il suo sapore in bocca
lo sguardo mischiato a fari LED,
mentre sciamano in sottofondo
le voci di un lontano dove non si sa
L’urto del giorno ci spinge un poco
oltre, ma l’ambliopia svuota gli occhi
di ogni volontà: impalate al giusto posto,
la topografia degli organi controllata
a vista, siamo sagome annerate che
sbiadiscono, il déjà-vu di un’altra vita.
Però la morte respira in ogni cosa
e quando luna e sole evaporano
la luce artificiale scende in gola
adesso sembra quasi dolce

***

Non eravamo pronti al dinamismo borderline
delle stagioni, a curvare gli sguardi
in una torsione, avvitandoli, fino a divaricare
il cristallino in congetture di salvazione.
Uno switch ha diretto le nostre giornate
in agglomerati di lontananze, un inverno
genuflesso alle abitudini e poi la collisione,
il cielo bisestile, il triangolo equilatero
della paura, ogni passaggio interrotto.
È stato l’avamposto delle gemme, in meno
di un nanosecondo, di taglio, a suggerire che
nonostante il distacco tra cornea e presente,
eravamo arrivati a una piazzola di sosta,
10/10 e 59 diottrie dopo, presi a guardare
di nuovo all’intorno le foglie emergenti,
tra un’antenna di fiori e una biocella
di compostaggio, il riavvio del sistema
trasmutato casualmente in una rinascita

***

Forse il corpo residuale sa ancora
nella sua saggezza ormai inceppata
come schivare i chiodi delle tenebre,
il danno cieco e i suoi cifrari alieni
nascosti in ogni eclisse, inumare
la membrana che protegge gli animi
scavare giù al fondo con sguardo
rabdomantico mischiare metallo
fuso e acqua, rivoltare il senso
delle tombe perché guardino faccia
a terra, sentire scorrere nelle vene
il soffio analgesico del dopo, una specie
di speranza sospesa nella controra
del giorno, in un luogo imprecisato
radicarsi, avvertire sulla lingua
lo schiocco della perdita e nel torace
il conforto mite dell’insetto
che rimescola melma e ossa
e dà vita a un altro mondo

Tutta la terra che ci resta


Silvia Rosa nasce a Torino, dove vive e insegna. Suoi testi poetici e in prosa sono presenti in diversi volumi antologici, sono apparsi in riviste, siti e blog letterari e sono stati tradotti in spagnolo, serbo, romeno e turco. Tra le sue pubblicazioni: l’antologia fotopoetica Maternità marina (Terra d’ulivi 2020), di cui è curatrice e autrice delle foto; le raccolte poetiche Tempo di riserva (Giuliano Ladolfi Editore 2018), Genealogia imperfetta (La Vita Felice 2014), SoloMinuscolaScrittura (La vita Felice 2012), Di sole voci (LietoColle Editore 2010 ‒ II ediz. 2012); il saggio di storia contemporanea Italiane d’Argentina. Storia e memorie di un secolo d’emigrazione al femminile (1860-1960) (Ananke Edizioni 2013); il libro di racconti Del suo essere un corpo (Montedit Edizioni 2010). È vicedirettrice del lit-blog «Poesia del nostro tempo», redattrice della testata online «NiedernGasse», collabora con il blog di letteratura «Margutte», con la rivista «Argo» e con il quotidiano «il manifesto». È tra le ideatrici di «Medicamenta – lingua di donna e altre scritture», progetto di Poetry Therapy che propone una serie di letture, eventi e laboratori rivolti a donne italiane e straniere, lavorando in una prospettiva psicopedagogica e di genere con le loro narrazioni e le loro storie di vita. Ha intervistato e tradotto alcuni autori argentini in Italia Argentina ida y vuelta: incontri poetici (edizioni Versante Ripido e La Recherche 2017).