*
(DOVE, DOMANI)
La notte non si divide, neppure il Tevere
che ci chiude in due città. Così il tempo delle assenze
è stato una giostra e una rettifica leggera al mondo
quella sorgente di montagna mai raggiunta
– eppure il nulla di melma del sottofiume
esiste ancora: lava di foglie, schiuma spenta,
tende di rifugiati e spazzatura
una bava del passato e un gorgo –.
Adesso non c’è tempo per dire cosa non è stato,
come sarebbe se domani – in un’ora senza data,
con musica infelice e in feste di settembre –
fosse visibile nel disastro, l’irreparabile
che annuncia un cambio di stagione.
Tutto avrebbe segnalato (visto prima) la sottile
differenza tra il sogno della morte
e un altro giorno in cui saresti stato qui.
Lo chiameremo, in ogni caso, storia.
(Roma, vigilia di Pasqua 2003)
*
(DOPO LA STORIA, I FIGLI)
Nei sogni non c’è mai il cielo o una parete di carbonio, un velo
dove guardare sangue nella cenere, senz’anni, né filo di coriandoli.
Conta il risveglio, compare dal fondo un lascito, somiglia
a un calcio all’aria di ragazzo, gli occhi gialli,
lento, impreparato ad avere in punta i nervi che colpisce,
le sneaker sporche, la smania a friggere per l’impossibile.
Il piede: un conio sulla porta chiusa, il vento fuori
che decide e urla, ombra di tutti i nostri agguati. La storia genera
perché niente splende se non brucia, come le guerre
il tempo delle colpe si consuma in una rissa.
È dopo anelli di morte che si ricomincia a capire gli anni
da un capillare occluso, dalla spirale di tagli, di abbandoni, l’aria
vuota di una conchiglia – e l’ascolto cieco del rumore,
al fondo dove i figli dei fantasmi sono un unico corpo immobile
che ci sopravvive.
*
A chi abita nei pressi del Monumentale manca
la parola cimitero. Si scende alla stazione sotterranea
senza malanni, né bende, tra scheletri di geometrie. Il nome
è quello (un aggettivo) e fa della morte un eroismo in fototessera;
i cittadini laboriosi (ora da Cina, dal Marocco) si tuffano davvero
nella terra guasta di Milano; sotto si viaggia sereni,
sopra la disfatta dei visi di marmo e calce, una galleria di morte
senza orrore. Qualcuno lava il pavimento (le tombe sono case),
ci si arriva tutti insieme, alla velocità che ha avuto il Novecento; l’Isola
dei morti, vicina (i vivissimi e ubriachi, i turisti di sé) parlano
urlate psicologie, esotismi. Se possiamo scegliere l’uscita, l’obbligo
è rimanere nella vita, nonostante si sosti tra i dimentichi
di tutto: del capolinea, dove non siamo stati mai;
del conseguito sangue, atteso in senso inverso
che invece non verrà; del fatto che sia tardi.
*
(A R.P.)
1.
“Lo sai, è veramente la fine di ogni cosa”
dice di un amore – e mente, solo cerca
dove si rompe il coltello sulla tempia, l’assedio
di una sera, il capogiro dove scendono i pianeti
la loro forza che calma, il loro freddo che cura.
“Perfetto il taglio, che segue l’orbita di un gesto da fare.
Anche ingiusto, come tale” dice ancora (qualcuno tace)
cercando come perso la sua stasi nella retta dei viali a Prati,
cercando quella chiesa (qualcuno ora lo dice)
“invisibile anche dal cielo”. Si guardano gli occhi, vessilli
di popoli che abitano due gerghi del silenzio
dove tutto era già detto da altri, di aborti, di telepatia.
Gennaio impallidisce, i negozi non apriranno
mai più, l’aria fittizia di questo inedito inverno
non si vede, come il dio che ci abbandona impotente
a Capodanno, nel ballo di alcolici, nel giro di case in affitto.
*
2.
Chi le abita, esce la sera coi topi, lune che indorano e bar elettrici
a scavare in un milione di bicchieri, alle finestre,
tra i vestiti poggiati sulle sedie e le buste di rifiuti
che colorano tetre i portoni. Non che sia terra così bella,
ma è una città come un’altra, serve a proteggere distanze,
il sì che c’è nel no, la cosa che appartiene
da quella che ogni ora si consuma.
Lamiere e marmo a splendere, come un banale altrove.
Invece in un giro di tango accennato, l’incontro preciso
in un saluto che manca, è solo questo: giorno che impazzisce,
improvviso, poi muto. “Vengono in molti, ogni giorno in questo bar
e aspettano”. Il vertice del vetro è nella trasparenza
di due corpi senza ordini, andando via senza parole.
“C’è libertà di fare, in assoluto, ma non serve”.
“Ci sono le scelte tutte possibili, non si distingue”.
Resta il precipizio di un volto in una testa, da solo
una stella abituata a bruciare in un guscio labile.
Non c’è un abbraccio (qualcuno resta fermo, l’altro
camminando) nella sosta all’angolo, poi chissà che vie.
Danno pace i lavori nella terra per il gas
e niente nasce. Non si vede più la scia di fango,
da dove tutto era venuto, dove tutto non ritorna.
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Mario De Santis, Corpi solubili, Pordenonelegge-Samuele Editore, 2023

Mario De Santis è nato a Roma nel 1964, vive a Milano. Ha pubblicato i libri di poesia: Le ore impossibili (Empiria, 2007), La polvere nell’acqua (Crocetti, 2012), Sciami (Ladolfi, 2015), Corpi solubili (Pordenonelegge-Samuele Editore, 2023). Laureato su Cesare Viviani con Biancamaria Frabotta. Oltre ad aver condotto trasmissioni culturali in radio per circa trent’anni, ha scritto per “Poesia”, “Atelier”, i blog “Nazione Indiana”, “Doppio Zero”, per “Robinson” di Repubblica e realizzato cicli di interviste per Repubblica TV. Attualmente giornalista di area digitale del Gruppo Gedi, scrive di teatro per “Huffington Post” e di libri per “Minima & Moralia”. Collabora con il semestrale “K” de Linkiesta per la sezione poesia e cura la rubrica settimanale “Certi versi” su “Specchio”, inserto de La Stampa.
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