*

La prima perdita furono le mani.
Mi lasciò il tocco ingenuo
che si addentrava nelle cose, le scopriva
con piglio bambino – le plasmava.
Erano mani che non sapevano
ritrarsi: mani di dodici anni,
mani di figli che tendono al cono
di luce – che non sanno ancora
giungersi in preghiera.
Mani profonde – come laghi
in cui nessuno verrebbe a cercare,
mani silenti come vecchi scrigni
chiusi – mani inviolate.

La prima scoperta furono le mani.
Ricevetti un tocco adulto che sa
esattamente dove posarsi – mani
ampie e concave di una madre
che si accosta alla soglia ad aspettare;
mani di legno e di fiori
di ciliegio – mani che rinascono.
Mani che sanno aggrapparsi anche
all’esatta consistenza del nulla.

*

L’altra nascita portò con sé
la distanza degli alberi
– la verde solitudine dei tronchi.
A noi parve – per così tanto tempo –
di non toccarci mai, mai raggiungerci
– per quanto ci protendessimo
l’uno fra i rami dell’altra –,
mai poterci dolere con foglie
solamente nostre – e che la tempesta
non rendesse indistinguibili.

Ci vollero diciannove anni
per prepararsi alla rinascita,
per trasformare la distanza tra noi
in spazio vitale, il vuoto in pieno,
il dolore in malinconia – che altro
non è che amore imperfetto. Aspettammo
i nostri corpi come si aspetta
la primavera: chiusi nell’ansia
della corteccia. Capimmo così
che se la prima nascita era tutta
casualità, biologia, incertezza – l’altra,
questa, fu scelta, fu attesa, fu penitenza:
fu esporsi al mondo per abolirlo,
pazientemente riabilitarlo.

*

La traccia del passaggio – mi dici –
da qui non si vede. Non è evidente.
Tu non sai, ma ci sono solchi
estranei alla luce degli occhi.
Benedico il tuo non comprendere,
l’innocenza con cui ti arresti
un poco prima del dolore
– l’istinto di tirarti fuori.
Non chiedere: non ho sintagmi
con cui adornare la realtà delle cose.
Non ho perifrasi per salvarmi.

La traccia del passaggio – non la vedi
perché il mio sentiero è troppo
stretto per starci in due.

*

Tutto iniziò con l’avere confidenza.
Eravamo solo noi due e il corpo.
Dapprima c’ero io soltanto,
lei venne poi con l’urgenza piccola
del vento, della pioggia, delle radici
– di tutto ciò, insomma, che non si può
controllare ma semplicemente accade.
Riposava nell’ordine inviolato
della natura. Forse da secoli
era iscritta in una qualche cellula
tramandata col tempo fino a me.
Perciò non seppi, non potei scacciarla.
Dovetti, come ogni destino, prenderne
atto. Forse era qui per salvarmi.
Era me più di quanto io stesso
potessi appartenermi. Mi fidai.
Così iniziai a darle spazio.

*

Tutto si chiude su te per celebrarti.
Ma quel che sento non è l’ardore
della festa, il riso sproporzionato
dei bambini. È l’angoscia composta
del funerale che si scioglie.
Il sollievo triste di un malanno
che si è consunto sotto terra – e non può
più ferire. Questa minuscola vita
che pareva non esigere nulla
da te, sappi, ti deve tutto.
Quante volte, già da bambini,
l’idiozia del crescere ti rinnegava.
L’ansia di dovercela fare da soli.

E ora che ho imparato ad amarti,
tu, sofferta mia consolazione, tu ora
hai deciso di non esserci più.
Ora che una grande paura mi prende.
Ora che so di dover andare sola.

*

Giovanna Cristina Vivinetto, Dolore Minimo, presentazione di Dacia Maraini, con una nota di Alessandro Fo, Interlinea, 2018 

Giovanna Cristina Vivinetto è nata a Siracusa nel 1994 e vive a Roma, dove si è laureata in Filologia moderna all’Università La Sapienza. Ha esordito con la raccolta Dolore minimo (Interlinea, 2018), uscita nella collana «Lyra giovani» curata da Franco Buffoni. Primo testo in Italia ad affrontare in versi la transessualità e vincitore di numerosi riconoscimenti letterari, tra cui il Premio Viareggio-Repaci Opera Prima, il Premio Alda Merini e il Premio under 35 Terre di Castelli; tradotto in diverse lingue, ha inoltre ispirato la serie televisiva Prisma. È presente nel XIV Quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2019) e il suo secondo libro è Dove non siamo stati (BUR Rizzoli, 2020).


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