*
Di nulla possiamo lamentarci.
Ci siamo fatti largo nell’angusto
passaggio verso la feritoia
per decidere, infine, un attivo
controllo della respirazione.
È una quiete distesa dove
ognuno conduce, senza volerlo,
questo leggero movimento del corpo
con silenziosa, commossa
partecipazione dal terzo pianeta del sole.
*
I rimpianti fanno povere le cose, fanno l’amore
storto. Dicono che chi pensa al passato invecchia
prima. Dicono di non girarsi mai verso la fine.
Il ricordo è un esile risveglio di corpi, mani
mobili universi in agguato…
Il mondo è sottile
tutti erano già in cammino
nella feroce precisione di un nome
che ritorna al tavolo di un bar, dentro
la tazza di caffè, in fondo a un nome:
ora.
*
A David
I
La stagione si appendeva agli alberi in una sconcia
confidenza con la terra. Era il giorno fedele ai nomi,
disegnavo quattro corpi sulle buste delle lettere,
perché la vita è poca e tu scomparso eri un luogo intero.
Lo vedi questo cielo impasticcato? Allucinato
verso un bianco crudele che è il bianco
delle palpebre, il bianco della gola quando
qualcuno ha detto «Adesso è pronto». Ma
io non ci credo, nessuno è
pronto, un istante sulla Terra, nessuno
è pronto, era nostro il perfetto insieme, il tuo nome,
la finestra aperta, amore mio cosa sta accadendo?
Cosa deve avvenire? Questa morte non esiste.
*
II
È solo sonno. Quell’unica potente
solitudine prima di dormire, il cuscino
è un dirupo dolcissimo della stessa materia
di agosto, le ferite semplici
di questa bestia
tra aghi che proseguono e non ti disfano.
Hai le unghie lunghe, continueranno a crescere?
Mio amore fossile, mio fittissimo nulla
dovremmo stare sulle nubi
di una strada d’aria,
ma il linguaggio è povero, un barlume
di luce su un pugnale
siamo qui per spezzare ciò che è intero,
manca poco alla fine, le peonie
sono tutte smontate. Ultima estate.
*
Niente più primavera,
mi viene da pensare, se allo sperpero
non ci fosse rimedio, se morire
fosse dolce soltanto per chi muore
Giovanni Raboni
Non che me ne importi molto, ma alle
dieci di sera, alle tre, alle quattro del pomeriggio
arrivava sempre gente un po’ speciale.
Nell’ufficio, intonacato di nuovo,
con la voce di grondaia li sentivo
fare conti, li sentivo singhiozzare
la cena, così, di colpo, nessuno
se lo aspettava, oppure la versione malattia, quante
cose difficili da nominare, alla fine,
si capisce, è stato meglio, non c’era terapia.
Ma io dico che da qui, da questo preciso spazio
non ce n’è uno che parli davvero, che queste
cose succedono agli altri, negli intervalli
più soffocati, quasi invisibili, il cuoco,
l’impiegato, il suicida, il povero diavolo
con due figli da crescere. Ce n’è una schiera
tutti i giorni di gente che non sa con chi stare,
da che parte ci tirano le ombre, se bisogna vivere
con i vivi o con i morti.
*
Mary Barbara Tolusso, Apolide, Mondadori, 2022

Mary Barbara Tolusso è nata a Pordenone e vive tra Trieste e Milano. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’inverso ritrovato (Lietocolle, 2003), Il freddo e il crudele (Stampa2009, 2012), Cattive maniere (Campanotto, 2016), Disturbi del desiderio (Stampa2009, 2018) e Apolide (Mondadori, 2022); i romanzi L’imbalsamatrice (Gaffi, 2009) e L’esercizio del distacco (Bollati Boringhieri, 2018). Ha tradotto Giacomino da Verona per il volume Visioni dell’aldilà prima di Dante (Mondadori, 2017). Ha vinto il Premio Pasolini (2004) e il Premio Fogazzaro (2012).
Foto dal sito Interno Poesia
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