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Café Jelinek
Un pomeriggio, quando la stagione
faceva acqua da tutte
le parti e il cielo
era un esantema rosa-salmone,
uscii di casa per avere una grande finestra appannata
alla mia destra, una stufa di ghisa
in stile liberty in mezzo alla sala,
imperturbabile come un samurai,
un sofà Biedermeier,
foderato di velluto verde-alga,
nei cui anfratti pescare
il cappuccio disperso della penna
e un tavolo dal ripiano di marmo –
per scriverti nel giorno in cui sei morto.
*
Il gheppio
Molto non ci rimane
di questo pomeriggio
che arrossisce in distanze e infiorescenze,
ma ci fissa – sembra sfidarci – un gheppio
sopra il cavo dell’elettricità
che divide la radura
in cima alla collina
tra un qui-ed-ora e un aldilà.
Ci crede forse suoi avversari
si chiede se anche a noi
interessino le lucertole,
le lepri fulminee o gli esseri
sotterranei, i lombrichi
la talpa, o se preferiamo le allodole
intontite da mille moscerini,
oi bombi lenti tra i denti di leone,
se anche noi, come lui, abbiamo un debole
per il topo, appena scampato al gatto,
appena uscito di casa, che ancora
profuma di formaggio e di moquette.
O forse spazientito semplicemente osserva
la strana tecnica di caccia
del nostro piccolo aquilone,
come goffo atterra, s’alza e volteggia –
lui, maestro ineguagliabile,
dello Spirito Santo,
il volo in stallo,
che esegue controvento
o sbattendo veloce le ali,
con la coda a ventaglio, librandosi a mezz’aria,
rintracciando tra l’erba ciò che vuole,
col suo sguardo-tenaglia,
in mente solo il bersaglio,
un punto o una linea in campo verde,
la ragione del volo,
la fine dello stallo.
*
La grande nevicata del 1985
La giacca a vento rossa con le piume d’oca –
che a volte sbucavano dal poliestere
come tarme dai loro nascondigli –
i moon-boot antracite, i sogni d’allunaggio
nel calzarli, il lampadario della sala
che già alle tre di pomeriggio
faceva concorrenza
al lampione della piazza,
ogni cosa più lenta,
pacificata, marmorea, la neve
ancora candida sui tetti, tanta,
ammonticchiata ovunque, su transenne,
piloni, balaustre, lungo ogni muro, così tanta
che in cortile costruimmo una rampa
più alta di Kareem Abdul-Jabbar,
un monte bianco da cui scivolare
fino al cancello, prima su sacchetti
di plastica e inverosimili slitte,
poi in un bob nuovo fiammante:
rosso ferrari il guscio, nere le lunghe leve
dei freni. La gravità era strumento
del piacere. I gemiti della neve,
il crepitare del ghiaccio: gli effetti
collaterali dell’appagamento.
Con guance rosse, spilli
di freddo nelle mani, la sciarpetta
di lana grezza che incendiava il collo,
ci lanciavamo dal centro della nostra Via Lattea
ai confini del cortile, dentro il bianco
inesauribile di quel gennaio, un sibilo,
quattro secondi, un secolo –
fine dell’era glaciale, inizio del fango.
*
Complementi di luogo
Che sia dove vuoi tu,
al terzo piano o al sesto, nel tuo acquario
illuminato in cui fluttui inquieta,
in quella strada
che senza guanti liberammo dal ghiaccio dell’inverno,
o su quei ponti di piumone
che ci reggono solo
quando ci uniamo.
Che sia dove vuoi tu,
nel distretto dei boccoli o nel centro,
che abbiamo dimenticato sul ponte
come un foulard,
sotto i lampioni, lungo il canale, nell’ascensore,
nella nebbia che sale
dalle nostre lingue
quando si scaldano.
Sia dove vuoi, ma fa’
che sia ora, in questa notte di neve,
che non avrà mattino né splendore
e morirà
alla porta, la luce accesa nell’anticamera,
un cappotto, le scarpe, l’eco dei passi
sulle scale e poi il buio
che farà ancora.
*
III
Vento da nord a nord-ovest, diciotto
metri al secondo, in aumento, pressione
in calo, c’è una tempesta in agguato.
Onestamente non so cosa ci
facciano coi miei dati,
se laggiù ancora capiscano il codice
Morse; vogliono installarmi un computer,
dicono che è un aiuto, ma io non
ho mai perso un rilevamento.
Temo sempre che qualcosa s’inceppi
in cielo o sottoterra – un ingranaggio
d’aria, una nube troppo
densa, un’aurora così luminosa
da svegliare i minatori di notte –
che i venti invertano rotta e impazziscano
le temperature, proprio quando
non ci sto facendo caso,
come se il mondo
decidesse di andare in folle
nell’esatto momento
in cui smetto di osservarlo.
*
Federico Italiano, La grande nevicata, Donzelli, 2023

Federico Italiano è nato nel 1976 a Galliate (Novara) e vive a Roma, dove insegna Letterature comparate all’Università La Sapienza. In precedenza è stato ricercatore presso l’Accademia austriaca delle scienze di Vienna. Ha pubblicato i libri di poesia Nella costanza (Atelier, 2003), L’invasione dei granchi giganti (Marietti, 2010), L’impronta (Aragno, 2014), Un esilio perfetto. Poesie scelte 2000-2015 (Feltrinelli, 2015), Habitat (Elliot, 2020) e La grande nevicata (Donzelli, 2023). Le sue poesie, incluse in antologie in Italia e all’estero, sono state tradotte in oltre quindici lingue e hanno ottenuto diversi premi e riconoscimenti. Autore di saggi sulla poesia e sulla teoria della traduzione, ha tradotto in italiano Variazioni sul barile dell’acqua piovana (Einaudi, 2019) e Autoritratto con sciame d’api (Bompiani, 2022) di Jan Wagner.
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