La poesia accade quando il respiro prende voce, ma è una voce non mia, aliena alla ragione, è un ponte sospeso fra Esseri che conduce talora all’incontro, talora al precipizio nel vuoto. Paul Valéry diceva che la poesia est une hésitation prolongée entre le son et le sens, per me è anche l’esitazione della luce nel buio uterino, una luce che si sveste dell’insolenza che le è propria per effondersi, sommessa, sulla verità delle cose, per accendere visioni, epifanie, agnizioni. Le visioni di cui parlo non sono, ovviamente, posticci balocchi metafisici; incarnano semmai un linguaggio senza involucri, arreso alla permeazione dell’Io da parte dell’Altro. Lasciarsi permeare significa lasciarsi scavare, incontrare sé stessi prima dell’altro, significa trovarsi in un gorgo a combattere le proprie Gorgoni. La poesia, quindi, è anche audacia. Per me, da qualche tempo, è soprattutto la lotta di un corpo sofferente per trovare la dignità dell’assenza. Eppure, tutto quello che ho sino a ora affermato non si tramuta ipso facto in poesia senza la mediazione di un codice formale, il quale non può che promanare da uno studio meticoloso e sconfinato. Soltanto attraverso tale codice, la grezza incisione che si situa in uno spazio di suono/senso/luce/buio/pausa/tempo, si condensa in sembianze discernibili come poesia. Altrimenti è altro. Maurice Blanchot scrisse che Chi scava il verso incontra l’assenza degli dèi. Ne deduco, quindi, che la poesia non salva. Ma almeno ci concede l’illusione di farlo.
Basta sfiorarla la pelle degli angeli perché cada,
e a terra riposi in scaglie sottili. Così è accaduto
quando il dolore primigenio ci ha sfiorati,
volto buio di dio, abisso del panico avvento.
______________Nell’arco teso è scritto:
non avere paura, abbeverati nel buio, cucitelo addosso
per far brillare ogni ferita, toccare la luce – oltre
Alba blu
Vorrei dire quest’alba blu che porta con sé la notte –
alba frugale – cielo sovraesposto – aria di urna vuota.
Ma incurabile è il silenzio, ne mendico l’ambivalenza, lo sfioro
e subito all’attrito si ritrae. Allora tacere, bisogna tacere,
per dare forma allo spettro di luce, che confabula,
bianco come un vagito, la voce del mondo prima ancora del bacio,
e vibra fino a lambire l’aria, così fuori
se una foglia trema, anche una stella può vacillare.
*
Lacera la pelle – è ancora qui l’estate.
La gazza ammattisce rimpicciolendo il cielo.
Un uomo macchiato di giorni sta in piedi per sbaglio.
Lo spazio è un abbaglio, un punto da slegare,
accanendosi senza amore.
Dove conduce questo languore assassino?
S’un’ala di foglie, dorme, solo, un bambino.
Maura Baldini è avvocato e curatore fallimentare, vive tra Ginevra e l’Italia. Nel 2022, è stata pubblicata la sua silloge poetica di esordio (La slegatura, Il Convivio Editore), opera tra le vincitrici del Premio Carrera 2022.
Alcune sue poesie figurano sulla rivista letteraria “Avamposto”, sul trimestrale di poesia arte e cultura “Il Convivio”, nonché su diversi blog letterari. Appassionata della lingua francese, ormai divenuta lingua di adozione, si dedica alla traduzione letteraria. Studia l’utilizzo della letteratura ai fini dello sviluppo personale, formandosi come coach esperto di biblioterapia.
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La poesia accade quando il respiro prende voce, ma è una voce non mia, aliena alla ragione, è un ponte sospeso fra Esseri che conduce talora all’incontro, talora al precipizio nel vuoto. Paul Valéry diceva che la poesia est une hésitation prolongée entre le son et le sens, per me è anche l’esitazione della luce nel buio uterino, una luce che si sveste dell’insolenza che le è propria per effondersi, sommessa, sulla verità delle cose, per accendere visioni, epifanie, agnizioni. Le visioni di cui parlo non sono, ovviamente, posticci balocchi metafisici; incarnano semmai un linguaggio senza involucri, arreso alla permeazione dell’Io da parte dell’Altro. Lasciarsi permeare significa lasciarsi scavare, incontrare sé stessi prima dell’altro, significa trovarsi in un gorgo a combattere le proprie Gorgoni. La poesia, quindi, è anche audacia. Per me, da qualche tempo, è soprattutto la lotta di un corpo sofferente per trovare la dignità dell’assenza. Eppure, tutto quello che ho sino a ora affermato non si tramuta ipso facto in poesia senza la mediazione di un codice formale, il quale non può che promanare da uno studio meticoloso e sconfinato. Soltanto attraverso tale codice, la grezza incisione che si situa in uno spazio di suono/senso/luce/buio/pausa/tempo, si condensa in sembianze discernibili come poesia. Altrimenti è altro. Maurice Blanchot scrisse che Chi scava il verso incontra l’assenza degli dèi. Ne deduco, quindi, che la poesia non salva. Ma almeno ci concede l’illusione di farlo.