
Dalla prefazione di Giovanni Laera:
Vora è una voce dialettale pugliese che significa ‘voragine, inghiottitoio’. Etimologicamente risale al latino vorare ‘inghiottire’, benché Rohlfs ipotizzasse addirittura, alla base del termine, la radice prelatina *vora. Tale voce forma curiose coppie minime con altri dialettismi: con la vura, ad esempio, parola con cui si indica in Puglia il misterioso folletto che conduce all’incubo; o con la vara, carro su cui vengono poste le statue o le immagini dei santi nel corso delle processioni. Sembra di entrare, anche solo articolando questi suoni, in una dimensione altra, un luogo nascosto alla vista dei più o, al contrario, ostenso, sciorinato; entro un sogno popolato dai mostri e dalle violente gioie dell’infanzia, e dal sangue dei santi. Mara Venuto dà ascolto, in questo libro, a quelle voci in grado di crepare il suolo, di farci letteralmente mancare la terra sotto i piedi, insegnandoci che è nell’ascolto – ancor prima che nella scrittura – il vero mestiere del poeta. Ci insegna, inoltre, che la poesia, quando sia venata dalla filigrana del ricordo, impone a chi scrive una spietatezza nei confronti di sé stesso: è impossibile tappare le orecchie con la cera, fuggire dal pericoloso canto del passato e del rimosso; è vietato distogliere lo sguardo, per quanto l’orrore o la bellezza siano tali da risultare insopportabili. Il cuore della poeta e la qualità di cui esso è pregno, il coraggio, ci appaiono trasparenti come petali di lunaria; pure, resistono al male e palpitano come il sole di Taranto. […]
Ho perso la mia innocenza,
una culla dove posare un corpo piccolo
e trovare un sudario.
Quanto tempo a ritrarsi
nel buco della terra
nel buio attraversabile con un pugno
eppure manca la forza del gesto.
Uno sguardo che non vede.
*
La razza povera era la mia catena,
il rimorso dei passeri
sulle piume grigie strappate al vento
e nessuno a raccogliere la caduta.
Pura e innocente la mia carta da scambiare,
quella nera che nessuno vuole.
Senza demòni che alitano gli occhi ai dormienti
per farli svegliare la notte,
alzarsi e vedere che non esiste nulla,
quel terrore è la vita.
La pianta sul davanzale
chiede dove finiscono le foglie senza nome,
quelle che non scivolano negli scoli.
Sotto la volontà dell’uzza
una leggerezza levriera spezza i nessi.
*
Ai buchi consegnare l’utilità,
scrivere su carta un nome
che nessuno chiede
e finisce dimenticato appena.
Pelle tessuti nodi capelli,
ritrovarli fra cent’anni
come amore fermo ai corpi.
Arrendersi per ultimi,
agli strappi cedere i primati
Mara Venuto è nata a Taranto, vive a Ostuni. Tra le sue pubblicazioni premiate: i monologhi teatrali Leggimi nei pensieri (2008), The Monster (2015, testo finalista al Mario Fratti Award 2014 di New York per la drammaturgia italiana); le raccolte poetiche Gli impermeabili (2016), Questa polvere la sparge il vento (2019), La lingua della città (2021).
Ha curato e pubblicato numerose antologie, tra cui un ciclo di volumi al femminile; è inclusa in molte opere collettive di poesia, prosa e teatro. È presente in volumi critici dedicati alla poesia italiana femminile.
Suoi testi originali e corti teatrali sono stati rappresentati con buon riscontro di pubblico e critica; sue poesie sono state tradotte e pubblicate in otto lingue. È stata ospite di Festival internazionali di Poesia, tra cui: IX Festival di Poesia Slava a Varsavia nel 2016; XV Festival Trirema e poezisë Joniane a Saranda (Albania) nel 2021; XXVI Festival Ditët e Naimit a Tetova (Macedonia) nel 2022
Scopri di più da larosainpiu
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.

