
La poetica di Biagio Accardo
La lettura di tutta la produzione poetica di Biagio Accardo (che mi ha recentemente fatto dono dei libri che hanno preceduto l’ultimo e bellissimo Luce del più vasto giorno) mi ha consentito di mettere a fuoco un metodo di lavoro in cui l’assillo estetico (la ricerca di una parola esatta, limpida, necessaria, la parola che strappi la maschera) e quello etico (l’interrogazione del proprio sé all’interno del testo molteplice del mondo) si intrecciano così strettamente da avanzare insieme, così che quanto più la parola si spoglia della superfluità dell’ostentazione e della retoricità, tanto più l’atto conoscitivo si libera di ogni auto-inganno aderendo all’intima sostanza dell’essere fino a mostrare il nostro volto, di scandalo e di figli.
Tale progressivo illimpidirsi del gesto della scrittura trova il suo più alto punto di castità nel mostrare scopertamente la fragilità dell’uomo, la sua humilitas come assimilazione alla sostanza terrena, le cadute del cuore nonostante lo slancio verso le altezze metafisiche (ma ancora manca la rivolta, / il fuoco che unisce ciò che lasci / intravedere, il cammino / che cuce il mio al tuo destino), la povertà dell’ audacia nella concretezza del fare (Musici artisti, forse briganti – / non sono, né sarò mai, nessuno di loro, / che hanno gettato e per intero / la vita) a favore di un più quieto atteggiamento contemplativo-filosofico, nel tentativo spesso deluso di trasformare la precarietà e la fuggevolezza delle percezioni sensoriali del ‘qui e adesso’ in una continuità miracolosa di vita e morte, luce e buio, conoscibile e inconoscibile, oltre le oppositività proprie del processo cognitivo occidentale.
Le figure della Natura disegnate con particolare precisione di dettagli e forte sensibilità cromatica, nonostante spesso assumino significazioni metaforiche, rimandano ad uno spazio concreto, rivelando l’inevitabilità dell’identificazione osmotica fra chi scrive e la geografia delle proprie radici. La mediterraneità intride i versi di Biagio Accardo sia con tutta la luce accecante dell’estate, la pergola con i suoi grappoli d’oro e l’arso / tavolato che si protende sul mare e i giorni carichi di sole, sia con quella livida dei cieli invernali e le pioggie gelate che trasformano le strade sterrate in pozzanghere, acquitrini e fango, in tutta la sua stridente e non edulcorata contraddizione di bellezza e miseria, così simile alla tempra degli isolani. E, a volere leggere i versi come una viva mappa di segni, non è affatto difficile individuare “quel luogo”, caro al poeta, nel piccolo paese di Santa Ninfa (nella provincia di Trapani), segnato, come tutto il Meridione negli anni postbellici, quando l’autore vi trascorre la propria infanzia, da un’economia prevalentemente rurale e da una diffusa miseria. Questo recinto spaziale, così vivamente caratterizzato nei suoi contrasti, non solo non inficia la ricchezza delle suggestioni e dei simboli che lo rendono universale, ma offre all’autore la possibilità di raccontare, attraverso figure ed immagini veritiere, la propria instabilità umorale e spirituale, la consapevolezza della piccolezza e della inevitabile marcescenza dell’involucro fisico: ci sarà qualcosa di me / nel granello di sabbia, nel fango.
È vero che nella poesia di Biagio Accardo entrano anche altri luoghi, puntualmente indicati (città monti, borghi, santuari), densi anch’essi di significati metaforici -primo su tutti l’erranza inquieta dell’anima- ma è l’appartenenza a “quel luogo” a rimanere il centro battente del proprio mondo interiore, quello da cui la parola si solleva, interrogando il poeta, quello da cui vengono osservati anche lo spazio e il tempo in cui si sono via via inscritti gli eventi successivi alla stagione dell’infanzia.
Se, dunque, in questo senso tutta la Poesia può definirsi una sorta di mappatura geo-biografica, quella del poeta Biagio Accardo lo è nella sua più nobile accezione di accoglienza della molteplicità delle occasioni attraverso cui egli ha fatto esperienza di sé trovando nella parola un’unità identitaria. In questo senso va letta l’esperienza della malattia (a cui il poeta fa riferimento nell’ultimo libro edito da peQuod nel 2022: Luce del più vasto giorno) in cui infine trova riposo il dissidio con le cose fino al raggiungimento di un’interpretazione del mondo di sapore rilkiano fondata su un sentimento nuovo: l’apprendimento di come si fa a sostare nel dono del presente, vedendo in esso il Tutto della grazia, la mistica dell’imminenza. La malattia sempre scorretta e impudica, riconsegnandoci a un codice dimenticato ci fa luridi, / come nel momento del nascere: / sempre – come allora- purissimi, nuovamente consenzienti alla vita, capaci di abbracciarla perfino quando ci precipiti nel buio della notte. È da qui che ha inizio quel percorso verso una un fede più salda, verso la Luce del più vasto giorno, come recita il titolo dell’ultima silloge di Biagio Accardo.
A ben vedere, è questa ricerca di fede a costituire il fil rouge che tiene insieme le quattro tappe del cammino poetico di Biagio Accardo (La notte ha lunghe radici, edito in privato nel 2009; Fratello di ombra Aletti Editore, 2016; Ascetica del quotidiano, SamueleEditore, 2019; e Luce del più vasto giorno, peQuod edizioni, 2022) che inizia dalla cecità della notte e da un’invocazione (guardami nell’anima, perché esca dalle notti e amandoti esulti nella vita) innalzata nei versi della prima silloge, per giungere alla luce di un fuoco nel cui crepitio si compie il miracolo che tutto annichilisce e porge al suo domani, alla catarsi della rinuncia e alla gratuità dell’amore, già preannunciate, a cominciare dal titolo, in Ascesi quotidiana, di cui il prefatore Massimiliano Bardotti scrive che si tratta di un libro “rinfrancante”, poiché è: «sempre rinfrancante (…) incontrare la poesia di chi ti prende per mano e ti accompagna (…) in un percorso che ha sempre l’obiettivo di dimostrare che la bellezza è viva, ed è sorella. È nei nostri tragitti quotidiani».
Tuttavia Accardo sa bene, come ogni autentico poeta, che il suo compito è quello di continuare ad investigare fino a bruciare, come una farfalla innamorata della luce, nell’incandescenza dell’Essere, fino a consegnare a sé stesso e ai suoi lettori il senso segreto di un itinerario esistenziale attraverso l’onestà della parola.
Il “ragionar poetando” di Biagio Accardo si avvale dell’insegnamento di maestri, quali Luzi, Borges, Bonnefoy, Rilke, Donne, Hopkins, Ruffilli e tanti altri, nella convinzione di una ideale comunità poetica in cui la voce di ciascuno contribuisca insieme alle altre a formulare una cartografia sempre più ampia e necessaria della realtà e della sovrarealtà, ricordando a chi legge la bellezza d’essere uomini finiti eppure ebbri di sconfinamento. E ai poeti che devono perseguire l’armonia della parola, perché essa incide sul mondo solo se guidata da intime ragioni di bellezza, e che, dunque, nessun pronunciamento va formulato a caso ma secondo un esatto ritmo, ossia quella proporzione sonora che rifondi l’equilibrio, sconfiggendo l’urto e la dissonanza.
La scrittura di Accardo non deroga da questi ‘comandamenti’ e costruisce l’unità di ogni testo come una coerente commistione di immagini, espressioni, figure retoriche, tensioni musicali, perseguendo sempre un’elegante chiarezza comunicativa, nonostante certi preziosismi lessicali, a tratti datati, ma sempre nitidi e calzanti. Egli unisce alla profondità della riflessione e ad una sua connaturata gravità posturale una grande libertà di flusso verbale e immaginifico, sganciato da qualsiasi recinto ideologico e concretato nel proprio vissuto.
Franca Alaimo
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