“Ho solo bisogno di lavorare, di scoperchiare le profonde miniere dell’esperienza e dell’immaginazione, lasciare che le parole vengano da sole e dicano tutto, ascoltando se stesse e saggiandosi”.
Sylvia Plath

Cristina Simoncini tratta la sua autobiografia in versi in modo quasi chirurgico, con un distacco che a tratti raggiunge cifre di imperturbabilità. Ordina il caos, sottomette la materia emozionale; è in questo modo, che il suo messaggio poetico acquista maggior forza.
Il suo processo di scrittura è di felice decantazione. Dopo un’eruzione vulcanica deve trascorrere il giusto tempo, che consente alla brace di raffreddarsi: la cenere giace sulla terra e compone le sue forme.

La Simoncini scrive con un linguaggio franto ed essenziale, carveriano. Le sue poesie sono spesso brevi, e quasi sempre “narrative”. Così dispiega ciò che viene dal suo vissuto, dell’umano dolore, di ciò che ha nutrito o ha trasformato in modo indelebile l’esistenza di qualcuno; in certi casi dell’intera cerchia familiare; la famiglia, infatti, appare in alcune liriche dell’autrice come un corpo unico formato da diversi destini, che si contaminano, si perpetuano ripetendosi, rappresentando l’uno lo specchio dell’altro. “È stato un lavoro di squadra, / ogni carenza si è fatta in quattro / per mantenere indisturbata l’altra. / A questo serve la famiglia, / mamma, a non guarire.”

Se pensiamo, junghianamente, a categorie maschile/femminile che non riguardano a tutti i costi i sessi ma un tipo codificato (schematizzando) di sensibilità, definirei la scrittura della Simoncini androgina. In qualche caso, vira verso il “maschile”. Una sorta di splendida guerriera sapiente, Minerva nata dalla testa di Zeus “Pensate, sono nata da un vuoto/al centro della testa di mio padre.”
Nell’humus della scrittura di Cristina Simoncini tante letture; una cultura di base di notevole spessore che non va, però, a inficiare, ad appesantire il nitore, la bellezza dei versi. La Simoncini ama la densità, non la prolissità figlia un intellettualismo sterile. Leggendola mi viene in mente l’asciuttezza geniale di Carver ma anche Robert Lowell, la Sexton, la poesia confessionale americana in generale.

L’armamentario concettuale e terminologico delle poesie della Simoncini rinvia alla fenomenologia del suo passato, di quello dei propri parenti. Non teme di utilizzare un lessico politico esplicito; a volte una parola, a volte un’intera frase; come il lemma “borghese”, sia rafforzato dall’aggettivo che lo precede “Sotto l’ombrellone nei Settanta / una famiglia di bugie borghesi”, sia citato con il prefisso “anti” che ne capovolge il senso, quando si riferisce a Lea, la benevola e stimata “padrona dei mezzadri”: “avete condiviso la sparizione / dello stesso mondo, la malinconia / la torta di mele che cucinava / lei, signora a disagio nella formica / delle cucine nuove / cittadine / gli occhi cerulei e a tratti disillusi, / il sano scetticismo antiborghese”.
In una poesia che descrive il padre tentando una definizione in negativo, per esperienze storiche e sociali che “non” attraversa, si rintracciano i termini caratterizzanti la stagione della contestazione, delle lotte sindacali fra la fine degli anni sessanta e i settanta con, in più, i riferimenti (che dipingono lo sfondo socio – antropologico su cui si muove) alla “bianchina sfacciata”, alla “spina inflazionaria”, all'”illusione collettiva”:
“Sbuchi dal margine di un’epoca / alla quale sembri non appartenere / – anni vibranti di protesta, / sangue che resta sull’asfalto – / il tuo non è un autunno caldo. / Proiettato verso l’altro socialismo / guardi di lato per attraversare / quel presente ruvido, hai perso / un po’ del tuo entusiasmo – / lo sviluppo si incrina, lascia vedere / la spina inflazionaria, i piani occulti. / Sei più vicino al centro commerciale / della cittadina, / alla Bianchina sfacciata […] dell’illusione collettiva, a casa / due ragazzine complicate, meno /felici di quanto potessi immaginare. […].
E in un altro rendiconto poetico ritroviamo la stigmatizzazione di rituali e oggetti “simbolo” di uno stile di vita desiderato dai genitori che organizzano una vacanza al mare al di sopra delle loro reali possibilità, nel periodo della crisi petrolifera che aveva messo fine a una crescita economica che era sembrata illimitata.
Millenovecentosettantaquattro / mio padre guida la Lancia Duemila / Iniezione, sul retro le bambine / scostano le tendine parasole / un lusso – anche l’accenditore elettrico. / Gli oleandri ci avvertono / che sta per comparire sullo sfondo / il luccicore del mare, più distanti / il petrolio, l’inflazione, mia madre / cerca una stazione spensierata, / quindici giorni per godere / del privilegio di sembrare ricchi” .
Sempre su questa linea, in cui la Simoncini elabora elementi del vissuto familiare, originale, straniante e molto amaro il parallelismo fra il destino dei nonni, come molti della loro generazione in fuga dalle campagne con annessa perdita delle loro radici, dell’ identità “nella ripresa post bellica”, e quello dei pulcini colorati per essere venduti facilmente come giocattolo vivo “Comparvero un sabato mattina / in cucina, sul tavolo di formica, / zampettando nel cartone: /nella ripresa post bellica gli ultimi /a migrare dalle campagne intorno / furono i pulcini blu cobalto, smeraldo / e rosso, colori fiammanti li rendevano / appetibili al mercato dei bambini, / l’inurbamento non innalzò / il tenore di vita – i pigmenti iniettati / nell’uovo fecondato non aiutavano / i piccoli peluche a durare a lungo – / pagliacci destinati a sostenere / la gioia evolutiva dei consumatori, /storditi, un po’ come i miei nonni, /trapiantati di colpo in una pelle nuova.” Questa associazione fra elementi così apparentemente lontani fa pensare a scelte che si compiono in assenza di consapevolezza profonda, per impulsi quasi meccanici, dettati da grandi movimenti socio economici che spingono a cambiamenti di massa, ciechi, spersonalizzanti. Mentre l’autrice dà segno in più composizioni di rimpiangere quel mondo perduto, e ha “nostalgia di sedie in cerchio / e codazzi sbracati di bambini / zoccolio di scale e occhi occhi […] la bici svogliata aspetta nel vicolo / dove la figurina di Bruno Bolchi / centrocampista dell’Internazionale / batte Suarez” […].
La Simoncini è poliedrica, e la sua poesia, in altri casi, aumenta la temperatura della sua carica intimista. Lo fa, ad esempio, quando richiama l’attenzione sulla storia di una creatura dimenticata. La morte precoce di una neonata è rimarcata con il sintagma “sonno bianco”, a cui la poetessa aggiunge l’aggettivo superlativo assoluto “lunghissimo” come a contrastare con dolorosa assertività la brevità inaudita, inaccettabile di una vita durata solo sei mesi, che non ha avuto modo di svilupparsi, di acquisire un senso, a stento detentrice di un nome proprio che non la salva da un oblio terribile da parte di tutti. Tranne che dell’autrice: “Sei rimasta qua / fra i viventi / solo sei mesi, un nome / e poche cose, /nessuno ti ricorda /– un paio di aneddoti, un purè /e un sonno bianco, lunghissimo. / Ti hanno sepolta? Chi lo sa. / Eri già un’ombra, te ne sei / andata con la guerra al posto / di tuo padre. Quanta ingiustizia / Mara, e tu non ne sai nulla.”
O nei versi che seguono, dove fa parlare con straordinaria efficacia le membra di un corpo: quello di sua nonna. La Simoncini adulta sembra rivolgersi a una sé stessa più giovane, forse bambina. La poesia sembra un’affettuosa ammonizione alla sua stessa inadeguatezza per inesperienza, nel comprendere l’inesorabilità del processo d’invecchiamento.
“Quando vedevo le gambe opalescenti / di mia nonna – solcate dalle vene / blu in rilievo – sbucarle dall’orlo / della gonna, lunga fino alle ginocchia, / pensavo che lei non si prendesse / cura del suo corpo, che si lasciasse / andare. Invece era il suo tempo, /giunto a quell’orlo, che scorreva / in fretta – a gambe ferme – /si rovesciava verso il blu del sangue.”

Cristina Simoncini è nata a San Giovanni Valdarno (Arezzo).
Ha avuto una formazione scientifico – filosofica. Grande lettrice, ha cominciato a scrivere versi e brevi prose sette anni fa su facebook. Ha pubblicato poesie su riviste cartacee (“Il Foglio clandestino”, “Aperiodico ad Apparizione Aleatoria”) e spazi virtuali (“Larosainpiu”, “Roberto R. Corsi”, “Le Parole di Fedro”, “Limina Mundi”, “Periscopio”, “Versolibero”, “Avamposto”, “Amori miei”, “Poeti contemporanei italiani e non”)


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