
Quest’opera prima di Silvia Patrizio porta già in sé tutto un mondo elaborato e sentito. Un linguaggio denso di sguardi, attenzioni verso le minime cose – che poi, in fondo, non sono mai solo cose, bensì strumenti di accesso per una nuova dimensione atemporale. Intima, fragile e potente allo stesso modo. La poesia di Patrizio è frutto di un processo innanzitutto personale, fino a raggiunge l‘Uomo con le sue paturnie e infine le figure femminili del mito. Parole che scavano nel fango, si fortificano tra le ferite, scelgono di esserci.
Un dialogo aperto tra coscienza e inconscio, tra scritto e silenzio; il “bianco” che prende spazio dentro e fuori di noi: il momento del vuoto («l’infanzia che non ha fotografie») e dalla pienezza. Forte é la sua presenza al mondo contemporaneo, citando le parole di Davide Ferrari “[…] La poesia di Silvia è contemporanea perché non si sforza di esserlo tra inutili orpelli e brandelli di lingua legate ai moti dell’attualità, che sempre ci sovrasta”. E senza nessuno sforzo, la Patrizio partecipa animatamente alla vita, contribuendo con la propria anima in direzione dell’infinito.
*
Così è il turno degli oggetti:
anello come anestesia
colpa come cibo accantonato
pozzo come pianto
bianco come braccio che si blocca
letto come lingua o come fiume
che si spacca
come fine.
*
Il sapore è quotidiano, del cibo annerito
sui fornelli, e un sollievo di torta alle mele.
Non c’è altro da prelevare all’incoscienza
tenuta nel rilievo
di una telefonata attesa, e subito
ritratta
dalla mancanza d’aria che si apre
appena prima di avvistare
le pareti, o sospettarle.
*
Il danno ha i contorni del corpo
lesioni ispessimento terapia –
sorprende nomi inediti alle cose
e li chiarisce
nel suo lessico d’aghi
che scuce le vertebre e sceglie
una posizione alla paura.
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