*

XI

Tu che non sei di questo mondo e sei nella polvere
e siedi alla parte breve del tavolo
estrai dalla tasca il bosco e dal bosco te stesso,
coi tuoi pensieri stesi ad asciugare sul greto
del fiume essiccato come cordicelle annodate
da un bambino estivo, che raso sull’erba
scocchi festuche marine alla terra e
al passo dei tordi protetti la prua di pigne
del promontorio nel ceduo del mare aperto,
dove al medesimo intento le cieche aringhe
migrano e sprofondano.
Semplicemente, in una radura nel bosco,
cucita alla fronda più alta la civetta inchioda
alle loro piume come a peccati falangi d’uccelli,
schiere di alati perduti, cori di rimprovero e di pianto
mentre tu avvicinandoti alla nave spaziale
giunta infine a riprenderti fai il gesto
di estrarre anche questa cosa dalla tasca.

*

XV

«Per andarsene da qui
lasciarsi cadere,
lasciare cadere a terra
ogni possibile liquido,
la muta, i licheni lanosi delle corna del cervo,
le squame, le penne del corvo e il suo arido volo
d’estate
sopra milioni d’insetti nell’erba delle praterie.
Per sempre non tornare
contemplare il fiume
accendere la radio
immaginare una casa
e pretenderla tua».

*

XXVI

«Presto sarà l’inverno
e il male che ci donammo
da lungo tempo non colto
maturerà appieno nell’ospizio del gelo.
Forse la funebre uccella siberiana,
colei nel cui utero già si dibatte e ride
l’orrendo e sacro implume,
dalla vetta di una mistica cipressa
chiamando a raccolta i suoi
contro il marmo del cielo
lascerà cadere dal becco anche te
e in questa mezza luce,
in questa sospensione o suono
come di revocata incursione aerea
darà inizio alla neve».
Quando così ti parlo e gli altri
in un denso fumo si rialzano
si guardano attorno e lasciano la sala,
sull’orlo dei tuoi occhi compare
un glutine di torpida inconsistenza spirituale;
perdi conoscenza.
Presto sarà l’inverno e
tu ancora non capisci che la caduta è eterna.

*

XXIX

Io ho visto soltanto cose
che impietriscono e commuovono
come un perenne addio ai compagni.
La sofferenza obiettiva dell’animale;
le file dei bambini di altra nazionalità
su un traghetto straniero andare via;
i verdi pianori dove appaiono le città incendiate
delle popolazioni ignote,
le fedeli agli dèi e fiduciose dell’uomo,
estinte come la piuma e il pelo;
le innumerevoli forze occulte, gelose dei loro possessi,
le terre gli alberi i fiumi
che si debbono continuamente propiziare con sacrifici
disperdere gli illusi dalla speranza di restar sempre uniti,
perché la patria è soltanto
un campo di tende in un deserto di sassi;
le parole immorali della società civile
baluginare anche negli occhi dell’amata
un attimo prima dell’amore e
la massa occulta e ostile dei suoi pensieri
scivolarci nel mezzo, gravarmi addosso
come uno sconosciuto che si chinasse all’orecchio
e mi narrasse alcunché d’incomprensibile,
per poi dormire e amare me;
la sempre presente stanza accanto
dove sotto lampadine purpuree qualcuno
si pratica l’iniezione che guarisce e
all’aprirsi della porta
comparire l’airone.
Ho visto delle cose, come tutti.

*

XXXIII

Io sto qui e da qui
vedo collassare le stelle, implodere i volatili,
cabrare verso il loro dio le nubi
per poi precipitare in lacrime e piogge;
vedo cadere tutto e tutto
ininterrottamente
la foglia, l’ala, il vento
che incitano il bambino giù dal tetto
e la polvere dalla tasca buona del cadavere,
persino volare in aria per un momento
l’erba tosata, la cenere dal vertice del falò
ma senza che mai nulla
giunga mai veramente al suolo,
così che la lacrima resta nel suo occhio, la pioggia nella sua nube.
Io, dalle volute di fumo umide e
dalle pire collinari e dai roghi contadini, credo
siano venuti degli uomini, credo,
ad ardere i campi e con essi la mia vita;
sia lode a loro perché da qui l’illusione è perfetta:
i figli cessano di crescere i genitori non muoiono
in ogni frutto traspare la sua gemma:
rivedo mio padre quando aprì la botola
e discese nel buio e nulla seppe mai più di me,
riodo i fischioni di richiamo lanciati verso qualcuno che non torna,
ed ecco spiegata la ragione del pesce elettrico
negli abissi del mare o perché gli uccelli credono
col loro canto di far sorgere il sole.
Quindi sia lode agli uomini che non dichiarano il proprio amore
e non perdonano e sono spietati
e strappano gli occhi dei fanciulli; sia lode
a quelli che come l’agrostide combustano l’intera loro esistenza
e lo stecco d’erba duro e secco della propria intelligenza
fino alla follia, covone dopo covone, con metodo,
contraendosi ed espandendosi nel fiato di fiamme della vita
per abituarti a guardare ogni cosa
come da dietro una vampa.

*

Alessandro Ceni, Mattoni per l’altare del fuoco, nota di Roberto Mussapi, Jaca Book, 2002

Alessandro Ceni è nato nel 1957 a Firenze, dove vive. È poeta, traduttore e pittore. Ha pubblicato I fiumi d’acqua viva (in Poesia Uno, Guanda, 1980), Il viaggio inaudito (Tosadori, 1981), I fiumi. 1983-1976 (Marcos y Marcos, 1985 e 1990), La natura delle cose (Jaca Book, 1991), Nel regno (Nuova Compagnia, 1993), La realtà prima (I Quaderni del Battello Ebbro, 1995), Il pieno e il vuoto. Antologia delle poesie 1976-1995 (Marcos y Marcos, 1996), Ossa incise e dipinte (L’Albatro, 1999), Tra il vento e l’acqua (Edizioni della Meridiana, 2001), Mattoni per l’altare del fuoco (Jaca Book, 2002, riunisce le precedenti plaquette Nel regno, La realtà prima Ossa incise e dipinte), La ricostruzione della casa. Poesie scelte 1976-2006 (Effigie, 2012), Parlare chiuso. Tutte le poesie (Puntoacapo, 2012), Combattimento ininterrotto (Effigie, 2015), Settantasette. 74 poesie edite + 3 inedite (Edizioni Helicon, 2018).  Ha tradotto, tra gli altri, Milton, Poe, Durrell, Keats, Byron, Emerson, Stevenson, Carroll, Wharton, Coleridge, Wilde, Conrad, Melville, Whitman, Dickens.

Foto dal sito di Poesia Festival


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