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Oscillando tra polo euforico di rispecchiamento simbolico e morale e quello disforico di alterità, mostruosità, diversità, gli animali hanno da sempre attraversato il territorio della letteratura.

Davide Puccini, nel mettere insieme il falco e la colomba sembra simbolizzare da un lato la minaccia e dall’altra la salvezza: “opposti sovrapposti” simbolizzanti lo stesso umano destino, ma con la differenza che il male operato dagli animali è esente da ogni consapevolezza morale e si inscrive nell’equilibrio dell’habitat di appartenenza, e che, soprattutto, contrariamente alla convinzione umana del praestare bestiis sostenuta dagli autori biblici e poi passata ad Aristotele e Cicerone, il male casomai coincide con l’uomo stesso che devasta, altera gli equilibri, uccide senza necessità, inquina la bellezza della natura per egoismo.

Non senza intento polemico Puccini apre la prima (OIKOS) delle tre sezioni in cui si divide la silloge con il celebre verso dantesco con cui Francesca da Rimini nel V canto dell’Inferno dantesco apostrofa Dante: “O animal grazioso e benigno”, chiosandolo in questo modo nei versi successivi: “Ma oggi l’uomo si è dimenticato / di essere un animale: / un essere animato come gli altri / sottomesso alle leggi di natura”.

E, sposando l’atteggiamento di molti poeti del Novecento che considerano gli animali partecipi “di un’espansione di dolore, diventando i correlativi oggettivi di emozioni che riaffiorano da un passato indefinito nel miracolo verbale della poesia” (da: Dizionario dei temi letterari, UTET), come accade in Saba (come non ricordare la sua capra dal viso semita o la poesia dedicata alla moglie Lina in cui il poeta la paragona per atteggiamenti e qualità fisiche a diversi animali domestici?) o in Montale, che ne fa dei correlativi oggettivi e perfino dei segni della poesia stessa.

Infatti, in tutta la prima sezione della silloge s’intramano riferimenti alla poesia novecentesca, a cominciare “dal falco alto levato” di Montale (che torna pure nel lessico botanico del testo “Il puzzone” – pag. 40 – in cui vengono citati ligustri bossi acanti, come nella celebre poesia del poeta ligure “I limoni”, e in “L’arte di stendere l’asciugamano al mare quando è vento” – titolo piuttosto lungo alla maniera di Lina Wertmuller – a pagina 32, dove viene ripreso il “piccino fermento” di un altro suo celebre testo), per proseguire con i gabbiani di Cardarelli e, soprattutto, per levità gentile e gaudio creaturale, con gli animali domestici cantati da Renzo Gherardini nelle sue raffinate sillogi e plaquette dedicate al cane Bobi, o alla piccola creatura alata Ciò Ciò o a quelli incontrati nei sentieri della campagna toscana.

Il “bestiario” di Davide Puccini è ricco e vario, comprendendo molti animali della terra, dell’aria e del mare – elemento, quest’ultimo, costante nella versificazione di Davide Puccini – in cui vivono creature come la polpessa (pag. 28), i saraghi (pag. 29), le occhiate (pag. 31), le meduse (pag. 38). Il rispecchiamento dell’autore nel mare e nelle sue creature è tale che nel testo “Felicità” esprime il desiderio, qualora gli fosse data la possibilità di rinascere “sotto diverse spoglie”, di essere un pesce al fine di godere di: “libertà senza limiti”, “vita sociale in folta compagnia”, “eredità di numerosa prole”, “vestiti di eccellente sartoria”, e cibo “in abbondanza non conteso”, delineando uno stile di vita corrispondente alla sua indole. Ma certamente la poesia più emblematica dell’atteggiamento di comunanza e condivisione con il mondo animale, proprio del poeta, è quella (pag. 15-17) il cui protagonista, un barboncino di nome Dobby, viene ritratto con tale vivace caratterizzazione della sua individualità (intelligente, dispettoso, geloso, imperioso, “pauroso fuori casa, in casa imperturbabile tiranno”, indagatore, signorile nel passo) da ricordare quell’affettuosa empatia lucreziana con gli animali in virtù di un orizzontalismo zooantropologico e sul piano sentimentale e su quello cognitivo, di cui si fa spia, in entrambi, la qualità psicologica del lessico.

A pag, 46 e 47 due deliziosi haiku fanno da passaggio alla seconda sezione, preparando, attraverso immagini e parole il mutamento dello stato d’animo e dell’oggetto del canto: il pesce che “penzola alla lenza” (bellissima sequenza di allitterazioni) e il nero “pennello / del cipresso” possono, infatti, leggersi come metafore della vecchiezza e della fine dell’esistenza, suggerite a partire dal titolo della seconda sezione: Al tramonto.

Già nel secondo testo (Controllo, pag. 52) il poeta qualifica come vano il ripetersi di azioni quotidiane: “impegni”, “stendi”, “allinei”, “ordini” che vorrebbero arginare e controllare il trascorrere del tempo e “Il lento accumularsi del passato”, che gli provocano tanta angoscia, che perfino il compleanno più che una festa gli appare ormai “un fatto ostico” per il suo “infausto pronostico”.

Il lessico della gioia, che caratterizzava la prima sezione, cede il passo a quello della tristezza (“languente”, “vecchia”, “precoce”, “freno”, “turbinando”) e delle metafore luttuose, quali: “il precoce avvento della notte”; il “freddo del vento”, le “morte foglie”, e si insinuano nel tessuto dei versi care memorie, nomi di amici che non sono più, nostalgie, avvertimenti della fatale decadenza di ogni creatura – che dopo lo squillante fulgore del giorno verrà inghiottita dalla cupezza della terra -, e la paura e la minaccia di un improvviso e rovinoso “scivolone”. E nel testo di chiusura “Al tramonto” (titolo, come già detto, della seconda sezione) sono i colori, che trasmutano l’oro, lo smeraldo e “il rosso ardente” del cielo in un nero profondo, a raccontare la fine, come fa il sole che mette in scena quotidianamente l’alternarsi di vita e morte

Chiude la silloge una terza sezione (Giudizio) di sei testi più uno in corsivo, Il falco e la colomba (lo stesso titolo dell’intera raccolta), introdotto da una citazione da I Sepolcri di Ugo Foscolo, che ricorda come ogni uomo volga il proprio sguardo morente alla luce, la quale, però, assume una diversa connotazione nel testo di Puccini, alludendo alla capacità di mettere a tacere il dolore in “virtù della preghiera”, e immaginare “un fremito d’ali” che non si sa ancora se siano quelle di un “falco alto levato” (figura dell’indifferenza, ma anche della stessa poesia che evade dal carcere del mondo) o quelle di una “colomba foriera di pace”, secondo la simbologia cristiana. È l’approdo, comunque, ad una consolazione, al riconoscimento di una presenza divina, al rito dell’eucarestia, al dialogo con il Creatore, oltre che con le creature, a permettere una sincera comunione con gli altri, in specie con i poeti. Perché alla fine è proprio la poesia la vittoriosa: “il talento ricevuto”, di cui Puccini dice con orgoglio: “io per salvarlo non l’ho sotterrato / bensì l’ho messo a frutto / e l’ho moltiplicato”.

Franca Alaimo


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