
Leggendo i versi di Nicola Grato ho immaginato in un primo tempo che vivesse lontano dall’entroterra in cui è nato. Trapela dalle sue parole una dichiarazione d’amore verso i suoi luoghi molto intensa. Mi è capitato di rintracciarla nella scrittura di chi è partito dalla sua terra d’origine; di chi se n’è dovuto distaccare.
Invece mi trovo di fronte a un poeta che valorizza moltissimo ciò che ha a portata di sguardo e di mano. Una sorta di delicata e potente nostalgia rivolta a ciò che, in realtà, si possiede, si vive. Che racconti di un personaggio, dell’atmosfera festiva di una giornata, di un’assenza dolorosa, di un paesaggio, Nicola Grato non dimentica e non ci fa dimenticare la sua appartenenza ai suoi eletti luoghi di origine. Accarezza i paesaggi, le stanze di una casa, un cortile; ce li restituisce smisurati e profondi quanto un mito. Nomina uno per uno i cibi, gli odori, i campi, creando una tassonomia, ma non esanime, di oggetti e spazi che o sono ancora vivi e vegeti oggi, o pulsano di vita per la memoria che li chiama, che apre le cortine dell’oblio per sé e per chi legge: “i morti vengono in sogno la notte / e ci dicono le storie: al mattino / le chiamiamo fole e ne ridiamo / perché la luce netta ci conforta; / ma quelle parole sentite a notte /fonda, quelle voci di tarli e cucche / ci hanno detto il vero, e sono evidenza:/ la casa di Pietro e Giuseppina / trema di vento dentro, e non c’è più /nessuno; il muro allato al condominio / era l’abside della chiesetta – /e ora non c’è più niente, hanno grattato /l’azolo e il tempo ha fatto muschio verde”.
Noi che leggiamo queste poesie, in ogni caso, ritroviamo qualcosa che conosciamo o che ci appartiene. Regna nella poetica di Grato, accanto alla resa della personalità unica e delicata del suo luogo e delle persone che lo abitano anche l’idea universale di un paese, che accende le sue ragioni di esistere in tramature che riportano a usi di tempi andati, che forse – e si spera – non hanno ancora smesso di tramandarsi. In un periodo storico che accusa da almeno un secolo la perdita delle piccole patrie, pasolinianamente detto – le piccole comunità qualche volta restano vive, esistenti, vibranti, provano a non sbiadire, a non farsi cancellare del tutto “dal tempo feroce della fretta”.
Osservo nel lessico di Nicola Grato la frequente ricorrenza di un elemento dal valore fortemente simbolico, il pane: “il primo odore del pane – / quello che chiamano odore degli angeli / tra le case basse di latta e legno / farsi strada fino alla casa, al balcone”. L’immagine del pane condensa il sentimento di appartenenza alla terra: “vano pensare d’essere di un luogo, / destino è di migrazione, / di lasciare la riva, / come i padri antichi le case, / il pane ancora caldo sotto il letto.” Il “suo” pane evoca anche concetti più astratti: “la vita della crescitura non è sonno / ma pane nell’anima del forno”; oppure: “la tua faccia era quella del pane /nel forno che soffre fuoco ma dà / un mondo nuovo di crosta e mollica”.
Frutti, alimenti, prodotti della terra, il latte trasformato, nei versi del poeta rimandano a sentimenti, suggestioni, trasfigurazioni: “certo ci vuole maestria, / mescolava / il latte caldo con il mestolo / e una scopa lunga; dopo tanto tempo / resto sempre incantata: lo vedi / come sale la ricotta, pare neve /pare un prato di latte che fermenta / un miracolo che ci fanno i santi / i nostri morti benedetti; accende carbone sotto la tannura – / fuori finisce aprile, mese lungo.”
Ci immergiamo sovente, leggendo l’opera di Nicola Grato, nella percezione di una natura che sembra accarezzare le case, il paese. Nella stessa lirica l’autore può mischiare il paesaggio con le abitazioni, con le abitudini, con le tradizioni, con gli oggetti, con gli animali, come a provare che non esiste separazione fra città e natura; non un “dentro” e un “fuori”. I confini della piccola città sono labili, e non è solo la vegetazione ad abitare fin nei più lievi anfratti di case, vicoli e piazze, ma anche la memoria: “al vicolo Castello tremano lenzuoli / le foglie, lo stipo azzurro, la casa / di Totò rotta dai fichi, dall’erba / di vento, dai rovi che fanno more”. O: “ il vecchio frangipane, la sua casa / in campagna con le piante grasse / i tacchini, le nasse col basilico / una vecchia fiaschetta di pelle / penzolante dalle travi di legno. / Sul tavolo di vetro la figura – / san Gerardo Maiella protettore / delle donne prene, e un pacchetto di / biscotti reginella. Gli elettrodi della macchina del tempo — / il lampo dello sguardo, le sue cose ammucchiate, disperse, ritrovate — / lenzuola stese tra due olivi torti / così la morte lo guarda con gli occhi / di una gazza su un ramo di ciliegio.”
Nelle liriche di Nicola Grato non ci sono parole che non siano necessarie. Arriva dritto al punto, usando lemmi di un italiano medio, non ricercato. Raramente slitta rispetto questo assunto nominando un certo tipo di pietra – “azolo” – o di fornello – “la tannura” – o piante specifiche, come “la sulla”, “La canfora (che) si dondola dal ramo / di quercia”…
A tratti utilizza sicilianismi, quasi mai sintattici: “panuzzi di san Nicola / un tocco d’uovo, ma lieve, di vento / quasi – misura di mano pittorica”; oppure: “bambina mia che sogni trovature” con la normalizzazione vocalica del termine “truvatura”; o: “il giardino di vurrane e pitrusinu”, e così via. Questi inserti diventano pennellature delicate che danno forza a un metadiscorso che il lettore, liberamente, come ho detto nell’incipit di queste note, può intrecciare, ricreare, godersi, passando da poesia a poesia.
Nicola Grato (Palermo 1975) insegna Lettere nelle scuole medie. Ha pubblicato quattro libri di poesie, tra cui Inventario per il macellaio, Interno Poesia 2018 e Le cassette di Aznavour, Macabor 2020. Si occupa di scritture di migranti e alcuni suoi contributi sono pubblicati sulla rivista “Dialoghi mediterranei.”
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