Leggo spesso per mestiere, piacere, curiosità, la poesia dei giovani, e devo ammettere di essermi imbattuta raramente in una testualità sostenuta da un percorso intellettuale e spirituale tanto netto.

Carola D’Andrea è nata nel 1993 e, dunque, ha solo trentadue anni, eppure sembra avere compiuto un itinerario esistenziale complesso e con una consapevolezza così piena da approdare anche stilisticamente ad una limpidità che non può non stupire ed essere apprezzata.

Immagino anche, da poeta oltre che da critico, che a tali risultati Carola sia pervenuta anche grazie ad un atteggiamento di umiltà (qualità sempre più rara nei giovani artisti) attraverso un fitto colloquio con i suoi maestri letterari, come dimostra la presenza delle tante citazioni che accompagnano le cinque sezioni in cui è divisa la silloge Abitazioni.

Si tratta di riferimenti vari: poeti italiani e stranieri, alcuni già morti per lo più appartenenti alla letteratura novecentesca, altri viventi, tutti molto noti, ai quali la poeta affida il compito di enunciare attraverso un loro verso i fuochi tematici della sua scrittura. Ma è anche oltremodo significativo il fatto che l’ultima sezione Passaggi sia dedicata ad una docente, Cinzia Pennino, morta prematuramente nel 2021, impegnata nella missione educativa e sociale salesiana, in quanto sottolinea l’importanza, per un sano sviluppo formativo dei giovani, della frequentazione di persone ancorate a valori saldi, capaci di illuminare oscurità, dilemmi, tentennamenti emotivi.

Per meglio raccontare il percorso esemplare di Carola, adotterò un metodo che in genere non mi appartiene: quello di seguire l’ordine dei testi, individuando volta per volta i concetti chiave, dimostrandone l’efficace progressività all’interno della sua storia di giovane donna, proiettata in una realtà contraddittoria e non sempre di facile lettura.

Molto interessanti mi sembrano i due testi d’apertura, il primo a pagina tredici, il secondo in quella successiva, in cui lo scarto intellettuale di fronte alla funzione della scrittura è talmente forte da supporre, tra l’uno e l’altro, una riflessione meditativa molto lunga, nonostante la loro prossimità.

Infatti, se nel primo l’atteggiamento di diffidenza e paura nei confronti della scrittura si risolve in un’autocensura, in un dimezzamento del vocabolario, in quello successivo è gia maturata la convinzione che la scrittura sia innanzitutto una forma di comunicazione. La poetica di Carola trova, così, i suoi punti costitutivi in cinque posture: predisporsi all’incontro con l’altro; “cercare l’esattezza del divino”, “avere cura… di ciò che si rivela”, “ascoltare la fioritura / che sussurra la forma”; attendere amando”, i quali coniugano etica ed estetica in nome di un reciproco scambio affettivo, come avviene anche nella professione stessa dell’insegnamento da lei praticata quasi come un inverarsi del suo etimo che lo definisce come l’azione di lasciare segni dentro, in quanto “dono di esserci / nella luce dentro al mondo”, anche e soprattutto nei confronti di chi è segnato da una mancanza, come accade all’alunno Ale, che, pur senza avere il dono dell’udito, riesce a “segnare / a disegnare dentro l’aria parole / che danzano il suo mondo / senza suono”.

Se la parola, insomma, costruisce il dialogo (e ricorriamo ancora una volta all’etimo che allude ad un reciproco attraversamento), può essere simbolicamente rappresentata, come scrive Carola a pagina diciotto, “un sentiero…verso il perdono” innanzitutto di se stessi, che comincia quando tutto ciò che è stato vissuto e tutto ciò che vive vengono accolti dentro lo spazio sacro del proprio tempio interiore (grazie alla pratica della con-templazione) dove nel vuoto del silenzio nasce il pieno della parola poetica, sublimata in visione, secondo un processo conoscitivo che ricorda molto la filosofia di un altro nostro poeta siciliano: Guglielmo Peralta, che ha già pubblicato una serie di saggi sull’argomento.

Con questo bagaglio di premesse teoriche, il lettore si accinge alla lettura dei testi della seconda sezione, Soglie, che sembra avere l’intento di predisporlo ad un passaggio da un luogo ad un altro, da un tempo all’altro, suggerendo la motivazione della scelta del titolo dell’intera silloge, Abitazioni: un preciso rimando al ruolo della memoria, che l’autrice considera non come una sintesi di ricordi risposti nei suoi tanti cassetti, ma come un rimescolio caotico di eventi, spesso suggeriti dai sensi che li riconducono in tutta la loro potenzialità di bene ma anche di distruttività, se non si posseggono le chiavi interpretative, se ci si lascia irretire dalla paura del confronto maniacale, come l’autrice confessa a pagina ventotto, “di pulire delirante ogni cosa / affidando all’amato / odore di candeggina / la salvezza”, fino a fare di essa un simbolo del Paradiso, “l’odore del perdono / di uno spirito pulito”. Una così palese ossessione trova la prima risposta lenitiva (pagina trenta) nel desiderio di affrontare “le proprie ombre” con la stessa umiltà, lo stesso abbandono di chi si affida alla preghiera.

Il mutamento di passo viene sottolineato dal superamento della seconda soglia: quella dello spazio, con la decisione di cambiare casa, che segna per l’autrice l’ingresso nel futuro. Ora Carola sa che indietro non potrà più tornare, che il tempo dell’infanzia con tutti i suoi oggetti scaramantici, se da una parte non è dimenticabile, dall’altra richiede, per essere rielaborata in modo costruttivo, l’affidamento a nuovi e più adulti segni di conversione al nuovo, tra i quali un “Gesù sulla croce”, che “taglia il tempo / aprendo le braccia”, quasi a segnare un nuovo criterio etico, una nuova maturità nella considerazione della necessità di progredire, di avanzare gradualmente, pur nell’umanissimo attaccamento a cose appartenute ai cari morti, verso affetti nuovi.

Per questo motivo l’autrice ritorna sul tema della memoria osservandola da altri punti di vista, e dopo essere passata, fra l’altro, come la maggior parte di noi, attraverso la solitudine del Covid, vissuta lontana dalla casa dei genitori che pure avrebbero voluto ospitarla.

Il tempo che segue è quello di un’accettazione del nuovo, pur nel ricordo del passato: l’odore del mare siciliano e il disegno delle colline di Bagno di Romagna si intrecciano insieme. E la poeta apprende la dimensione profetica della parola poetica, domandandosi come sia stato possibile presagire “i gesti i tormenti / di ciò che sarebbe stato” attraverso la lettura dell’opera di Pavese, condividerne “lo sguardo di collina / scorrendo gli occhi sul mare”, porsi in dialogo attivo con l’autore de Il mestiere di vivere, trovando una risposta oppositiva nella speranza nello spazio di un’aula, durante probabilmente una lezione di storia: “dire ancora dell’evoluzione / saperla / un’illusione, il rifugio / per le sconfitte segregate / o per le utopie / che la speranza salda / oltre tutte / le cronologie”, rimandando all’idea manzoniana della storia, mossa, in ogni epoca ed evento, dall’afflato della Provvidenza.

Da questa convinzione sgorga lo slancio dell’affidarsi: ha inizio la terza sezione: Consegne. All’atto dell’insegnare (formare, lasciando segni) si aggiunge quello del lasciare segni in una realtà condivisa con l’uomo amato. La carica emotiva che si distorceva spesso in tormento e smarrimento si scioglie in stupore, tenerezza, commozione e gioia, che sono i sentimenti che si susseguono nei testi iniziali della sezione in un climax ascendente, in una sorta di corale invocazione al Dio che “concilia”.

Il viaggio dello spirito è iniziato e continua nella quarta sezione che ha un titolo assai eloquente: Costellazione, che è introdotta da due citazioni tratte dall’opera di due autori, a me entrambe carissimi: San Francesco, di cui mi onoro di portare il nome, che scrive la sua laude al creato tutto, animato dal Sole (“di Te, Altissimo, porta significatione”); e il poeta Franco Loi, amico mio carissimo con cui ho scambiato per tantissimi anni una corrispondenza epistolare molto signiicativa. Di Loi l’autrice cita un verso che risuona così in dialetto milanese: “Cunuss vor di vardà e inamuràss”, secondo un movimento dagli occhi al cuore che ricorda la poetica stilnovistica, ma che soprattutto raccomanda di guardare tutto ciò che circonda (cose, persone, creature tutte) come manifestazioni dell’Amore divino. Solo in questo modo è possibile proiettarsi all’interno dell’infinità temporale, della pluralità, comprendere che nell’evoluzione si mantiene il “seme buono della creazione”, secondo l’insegnamento di un altro grande poeta italiano, che fu Mario Luzi. La natura diventa in questo modo una sinfonia di segni e sogni che annullano distanze tra città, nazioni, popoli. La lezione più grande ci viene dagli alberi che contengono già nel seme “il destino di un’apparenza”, che stanno saldamente nella terra per offrire fiori e frutti e intanto si innalzano al cielo, configurando “l’unione tra ciò che scorre / e ciò che vola”. Ed ecco che i verbi dell’albero: resistere, aderire, aspettare, schiudersi, risalire diventano quelli dell’esistere; l’impronta è quella di Dio, il risultato, se la onoriamo, sarà “commuoversi”, ciè muoversi insieme agli altri abbracciando “tempi spazi corpi”.Il viaggio esistenziale di Carola D’Andrea ha trovato, dunque, il suo ubi consistam, attraversando con sguardo interrogante tutte le dimensioni con cui si è confrontata: il tempo, lo spazio, l’apprendimento, l’insegnamento, la letteratura, la religione nella convinzione che quest’ultima non è soltanto una pratica rituale, ma un modo di tenere insieme ogni esperienza, di renderla eternamente vivente.

Franca Alaimo


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