
È curioso, perfino buffo e divertente, il rapporto che la scrittura ha con la realtà. È indubbio che lo scrivere narrativa o poesia nasca dalla realtà o, più che nascere, affondi – vada a fondo, nel fondo, nella melma del fondo, nella terra/acqua d’alghe, batteri e pesci ciechi; o nella terra umida e fertile del bosco, terra di foglie, muschi, stami, insetti, tane, sonni; nel fondo antico di noi stessi, nel fondo che non parla ma ricama fonemi, stupori sillabici forse comuni a umani ed elfi, gnomi, fate e streghe, scarabei, formiche, lombrichi. Siamo la terra prima della lingua. In quell’oscuro antico – l’Es? – affonda il tentativo di dire dell’infante e la prelingua che, con quei colori, odori, quei freddi e tintinnii a cui il tempo dona il fascino di un indefinito preverbale, diverrà poi parola e canto.
Il brivido dolcissimo di una pioggia d’autunno; le foglie-smeraldo, le foglie di carta e i frammenti; un canto lontano; le spine del freddo. O il meriggio/meriggiare «pallido e assorto» (quali parole migliori di quelle di Montale?) nel tempo sospeso del bambino. Leopardianamente tendiamo ad addolcire anche i ricordi che ci hanno ferito ora cullati/ovattati dal silenzio. Ma non è ancora scrittura: sono solo le sue radici che cercano di germogliare. Tutto questo è solo humus, terra.
Troverà la lingua le parole, ma solo se chi scrive si arrende. Chi scrive versi non deve sorvegliare ciò che scrive, non deve cercare, deve lasciarsi cullare/dondolare dalla voce, le assonanze consonanze rime danze assenze essenze: un bambino che gioca. Ah no, non è innocenza, in letteratura l’innocenza è finta, sono finti i buoni sentimenti – lo diceva André Gide – se pensi a cosa vuoi dire tuffi la scrittura nel banale, già visto mille volte mille: anche se sono questi, proprio per la loro banalità insapore incolore, ad essere più applauditi. Come diceva la cara vecchia critica strutturalista il significato è il significante.
È vero, la letteratura è un viaggio, da Omero a Dante a Conrad a… tutti, ma un viaggio senza mappe, sestanti, bussole, satelliti, geografie geometrie. Solo la lingua. Un Wanderer, la figura mitteleuropea del viandante, nella scrittura.
nuda, nuda nell’arca nuda
che strappa all’acqua il grido
del tempo che c’era un tempo
e cruda l’alga l’acqua nuda
dell’alba che annalga e vola
oltre il bosco è sola
e vola, vola sola e nera
vola capinera e pettirosso
vola l’acqua del fosso
vola nel gioco nel poco
di te bambino scoiattolino
sulla riva che non arriva
al poco del gioco
o tempo che non hai tempo
di ascoltarci e vedere volare
oltre il tempo il fiato lo iato
tra il volo e il tempo usato
per non essere nemmeno niente
un giocattolo sbagliato
gettato là oltre il grido
ai piedi di un nido
vuoto da chissà, più in là più in là
il tuo sogno piccolino nudonudo
che avevi un giorno bambino
nelle terre perse del nido
nelle tracce del grido
–
dei nevati azzurri
e velati cieli di mattine
innervati in vuoti
rami di gelso, m’invogli
al silenzio del sentiero
– sentiero di carta e acquarello
non vero o mai stato vero
l’infanzia inganna, è di garza
il cielo sotto le luci dei lumini
e tende ricamate da fate e tate
della vita vera resta
un albero di cera
–
Figlie foglie
soglie in nidi
e d’albe
gridi
al cielo
là dove
nel, è, nel
bianco
(ti chiama, senti?
ti ama?)
ed è, nell’è
che era e
sarà?
Non lo vedi?
Là?
Non
***
(Il tema celaniano della soglia – Schwelle – che s’annida sempre nel là è il non-spazio che blocca il passaggio nel là, l’oltre hölderliniano, o l’indefinito che ha forma oltre il là a cui tendiamo. È la soglia del dio? La soglia del senso? La nostalgia di ciò che forse non è mai stato? Mi sento perennemente in un altrove, teso a un «più in là» zanzottiano – miraggio, raggio – nell’azzurrino del sogno: anche quando il qui è la musica di un liuto cerco l’altro e gli avverbi sono i rami le corde a cui m’appiglio per andare, appunto, più in là)
Roberto Lamantea è nato a Padova nel 1955. Ha trascorso infanzia e adolescenza tra Gorizia, Udine, Imperia e il Lago Maggiore. Vive a Mirano (Venezia). Collaboratore della rubrica “Libri” del quotidiano Il Gazzettino dal 1973 al 1980, dal 1984 al 2020 è stato giornalista del quotidiano “la Nuova di Venezia e Mestre”, dove è stato critico letterario e di teatro e danza.
Collabora alla rivista mensile online Fare Voci. Ha ideato e dirige il festival TerraMadre di Mirano. Ha pubblicato sette raccolte di poesia: Eucaliptus (Rebellato 1975), Ibis azzurro (1979), Xilofonie (1994), Nel vetro del cielo (Amos 2006), Verde notte (Amos 2009), Delle vocali l’azzurrità (Manni 2013), Uno strappo bianco (Interno Libri 2021), e il racconto in prosa lirica Il bambino di seta (Amos 2020), oltre a saggi, poesie e racconti su riviste web e in diverse antologie.
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