*

come le bianche accecanti lenzuola
della tua stesa nel terrazzo di fronte al mare
– vele pronte nel vento a salpare
che non hanno mai preso il largo –
sta sul fildiruggine della memoria,
immobile e sacro,
il cencio stinto del suo passato

*

Al giovane Eusebio

no, non tendono alla chiarità
le cose oscure.
Tendono a una più profonda
oscurità:
meduse che vanno alla deriva,
si rapprendono in grumi informi
come grasso sul mare.
Non salgono al cogito,
nel Cocito non precipitano
e neppure in Antenora o Tolomea.
Nessuna immagine leggera
ma solo caligine,
non brina o simbolo o ricordo
ma albume e tritume.
Nel covile oscuro
della dimenticanza,
nella terra delle acque ocra.
Forse germi di giunco,
gemme, viticci e bacche.
O una schiuma opaca e gorgogliante
di sale alghe sfagno.

È solo un dubbio, un’ipotesi
relativa all’aspetto ‒ origine e fine ‒
del signor Mondo
ma non è detto
che tutto questo sia poi un male
o un pensiero peggiore delle esegesi
che con tanta facondia
sviluppano i corretti
filosofi della cosmesi

*

seduto su un masso, lo spirito
guarda, non visto, il ragazzo
che, piegato, taglia con la piccola falce
(quella grande qui, su sottili strisce di prato
strette tra le rocce, non si può usare)
manciate d’erba odorosa e viva.
Non c’è segno della lingua umana
ho strumento della scrittura
che possa imitare il rumore della lama.
Si sente, a volte, il passare del vento,
il trillo del tordo, il verso del merlo.
Senza bisogno di un maestro indiano,
esercizi da salotto o da palestra
e tante inutili parole,
il lavoro della cote,
le pause dello sforzo,
le bolle che crescono sulla mano,
la terra vista da vicino
con i suoi piccoli abitanti in fuga,
lo educano al silenzio.
Nello spazio lasciato vuoto nella mente
dal ripetersi dei gesti attenti
si pensa ad altro:
a tutt’altro ‒ a niente.
Una solitudine assoluta e senza nome.
Come quella dei dipinti dei paesaggi
nati nel digiuno dalla gente.
Conservare e annientare.
Essere uno.
Conoscere, tra gli ultimi,
l’erba di nessuno.

*

tempo poche settimane,
appaiono i semi neri
in controluce.
E, nel vento che invade
la camera a novembre
animando le tendine,
le bianche vibratili valve
farfugliano, leggere,
uno sciame di sillabe inafferrabile.

Com’è vicino l’irraggiungibile…
sale da terra, non scende dall’etere
‒ si guarda
e non si può legare con un filo
o conservare in un cassetto
‒ si sente
e non si può ripetere.
È il biglietto d’uno sconosciuto
a cui bisogna rispondere subito
‒ come a una richiesta d’aiuto

*

soli, senza la gente, senza le pagine,
l’occhio scorre
l’abbecedario di minime grandezze.

I passi, come rugginosi uncini,
incidono geometrici la sabbia
con il balbettio dell’esperienza.

Ridotte al silenzio l’ossessione delle cause
e le cause della rabbia,
ogni traccia è voce infantile che sillaba
il libro selvatico dei medicamenti,
la trama sotterranea delle radici,
lo slancio dei primi rudimenti

*

Enrico Testa, L’erba di nessuno, Einaudi, 2023

Enrico Testa è nato nel 1956 a Genova, dove insegna Storia della lingua italiana all’università. Dopo Le faticose attese (San Marco dei Giustiniani, 1988; poi Graphe.it, 2025), ha pubblicato per Einaudi le raccolte poetiche In controtempo (1994), La sostituzione (2001), Pasqua di neve (2008), Ablativo (2013), Cairn (2018), L’erba di nessuno (2023) e per Manni Pietre di sosta. Poetica e poesia (2024). Sempre per Einaudi ha curato il Quaderno di traduzioni di Giorgio Caproni (1998), l’antologia Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000 (2005) e L’esistenza. Tutte le poesie 1980-1992 di Alberto Vigevani (2010). Tra i suoi volumi saggistici, Il libro di poesia (Il Melangolo, 1983; poi Quodlibet, 2025), Lo stile semplice (Einaudi, 1997), L’italiano nascosto (Einaudi, 2014), Montale (Mondadori, 2016), Sofocle. La solitudine di Filottete (Il Mulino, 2021), Pronomi (Einaudi, 2025). Ha tradotto Finestre alte di Philip Larkin (Einaudi, 2002) e Milk Wood di Dylan Thomas (Einaudi, 2021).

Foto dal sito La Voce di New York


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