Liturgia dell’acqua di Daita Martinez, Ed. Anterem, 2021
Il primo gesto è quello di slegare la propria voce poetica da ogni altra precedente, nonostante i tanti sprofondameni innamorati nelle scritture altrui, per nominare il proprio universo verginalmente, cesellandolo come un materiale duttilissimo e molto prossimo al sogno, tanto esso è al di là di ogni logica oggettività; sebbene, del tutto affidati alla liquidità sonora delle parole, si possano intuire luoghi e persone e le altre vive creature del mondo, e, soprattutto, personali esperienze e umori e cadute nella disillusione e nelle trame ambigue dei sentimenti.
La città di Palermo in cui l’autrice vive, ubbidendo ad un’ansia di appartenenza sottolineata dall’improvviso innesto di espressioni della parlata locale, fa da teatro alle molte figure che sembrano entrare ed uscire dalla scena per la passione pura di esistere dentro gli occhi che ne accompagnano le brevi immobilità e i dissolvimenti, ché tutto l’organizzarsi delle immagini, spesso mutilate, e comunque sciolte dalla razionalità della sintassi e perfino, talvolta, della grammatica, sta nella ricerca di una cantabilità che le ritaglia e le sospende in baluginii cromatici, in suggestioni simili a quelle che hanno le superfici delle cose che si specchiano nel tremore dell’acqua. Quell’acqua che, nel farsi metafora della fuggevolezza, diventa un rito di purificazione senza sosta, ma anche il velo grazie al quale dirsi senza troppo esporsi. Sembra piuttosto che in questo universo poetico, fatto di delicate corrispondenze verbo-visive, l’autrice cerchi una mimetizzazione con gli elementi, anzi una sempre variata diffusione di sé stessa nel circostante spazio.
Nell’impalcatura scenografica ogni parola basta a sé stessa, proponendosi, nella sua fisicità significante, nella sua abbagliante musicalità, intanto che costruisce percorsi di difficile senso e tuttavia di innegabile incanto.
Ne viene al lettore capace di “avvertire” la natura più profonda del linguaggio poetico, la consapevolezza di confrontarsi con la radice prima della conoscenza, una sorta di magico infantilismo.
Di certo la produzione poetica di Daìta Martinez si differenzia in modo così deciso da quella degli altri autori della contemporaneità, da meritare pienamente una collocazione nella categoria letteraria dello sperimentalismo, ma tenendo presente che il suo, lontano com’è da ogni cerebralismo, potrebbe trovare una più giusta definizione quale libero flusso emotivo che trascrive sul vuoto bianco del foglio immagini di cose e luoghi simili a balenii, a singhiozzi della memoria.
La materia di una tale enigmatica tessitura verbale è, infatti, la riappropriazione del proprio vissuto e all’interno di uno spazio tipicamente mediterraneo, che profuma di limoni, di gelsomini, di rosmarino, e all’interno di una vaga dimensione temporale in cui si succedono albe e tramonti e si muovono creature fragili e bellissime come i passeri, i cardellini, le farfalle, “come oggetti semplici di scena che/ le piace sbriciolare lettera per lettera”.
Anche l’eros, nonostante certe audacissime figure, quale “la rossissima porta dell’inguine”, viene avvolto da una sorta di distanza onirica in cui tutto sembra perdere, come ogni altra cosa, i suoi concreti contorni, così da giustificare la sospensione delle regole: da qui la scomparsa della punteggiatura, del carattere maiuscolo, la spezzatura irregolare dei versi, perfino quel ludus che accosta e accumula e ripete lemmi solo per il piacere di sentirli risuonare: “la cena dentro l’arcata al di dentro dei/ limoni tondi rotonda una caduta tonda/ ripasso sparso lì sparso”.
Tutto questo, in realtà, offre la formula che, se bene interpretata, permette di accostarsi al segreto della poesia di questa silloge, come della poesia tout court, della Martinez, che è quello di una rifondazione del mondo attraverso la grazia e l’innocenza dei bambini: se si scorrono i versi, spesso li troviamo nell’atto di custodire tra le mani la spensierata felicità del gioco, la meraviglia del creato, la fantasia dei sogni; a loro bene si addice il simbolo dell’acqua, che ricorre quasi venti volte nel corpo di liturgia dell’acqua, elemento purificatore, come si diceva prima, simbolo di rinascita e di grazia celeste, sorgente iniziale della vita: così gli spazi bianchi fra immagine e immagine, fra parola e parola, diventano i punti nascosti in cui concepire l’impossibile.
Franca Alaimo