C’è nello scrivere un haiku, come nell’addentrarsi in un bosco, il predisporsi a farsi cogliere di sorpresa. È l’esercizio di ricercare su più trame: afferrare ciò che significa nell’istante dell’apparire, renderlo in una suggestione subitanea data dalla parola e di ciò farne esperienza poetica. La parola così composta prova d’impulso ad avere suono, temperatura, consistenza e odore e colore e sapore, si fa frammento che trova posto nelle connessioni emotive.
Bene l’haiku, nella sua matematica breve, fatta di numeri primi di 5-7-5 sillabe (more), nella parola della stagione (kigo), nella cesura tra i versi (kireji), nella sua bellissima, distillata e aurea complessità, pare avere mappa e coordinate per fare confluire e immediatamente rifluire quel frammento, quell’impulso, nelle ife del micelio che sostanzia e mette, per un infinitesimo, in collegamento con l’altro.
L’essere haijin, dunque, esplora in natura, dove altro farsi cogliere di sorpresa sia che si proceda accorti sia che lo si faccia distratti, dove altro provare a farsi buona compagna l’inquietudine. È nel luogo natura che avviene qualcosa: per immediatezza (karumi), delicatezza (shiori), mistero (yugen), solitudine (wabi), caducità (mono no aware), percezione del tempo (sabi). Giunge il momento della sorpresa, l’incanto, il raccogliere l’immagine, quasi sempre una ripresa fotografica, memoria ed evocazione, frammento di quello che presto, con una trasformazione aerobica, si fa parola se già non lo è. Quando accade arriva, di sovente, anche la bell’attesa del vedere la parola comporsi, farsi haiku. Dura talvolta un istante oppure giorni, lo preferisco, si affievolisce, dilegua, ritorna, infine prende forma, magari mentre guido, sono intento a curare il giardino o cucino. Quasi sempre è nitido nella mente già in 5-7-5 sillabe (con o senza sinalefe), il più delle volte resta così come si è manifestato. È già nella rete quantistica delle connessioni emotive, è già ricerca poetica bastevole, parte buona di ciò che è insolito riuscire ad abitare.
Sfilare al tempo
Un fiore di begonia
e il tuo viso
*
E l’alba e ride
La ragazza ai segreti
l’albero ai rami
*
Certi silenzi
rossi imprecisi e tardi
E i papaveri
*
Quale il disporsi
Dei fichi d’india e di te
i frutti al sole
*
Che poi la sera
ha parole piccole
E terra umida
*
More e labbra
È facile mancarsi
tra questi campi
*
Se di gocce e alba
il cedere improvviso
Come di un altro
Sono nato nel 1963, di origini piemontesi vivo nella campagna a nord di Roma. Architetto, contento di esserlo, avrei però preferito diventare un etologo per il bisogno di stare in natura. Sin da ragazzo attivo nel terzo settore, ho contribuito ad aprire una biblioteca in un ospedale romano, ora sono sui temi dell’inclusione scolastica. Scrivo perché mi viene di farlo così come mi veniva di fare l’etologo ma, per quello, non sono stato pronto a dare il seguito che dovevo.
Sono un buon lettore, generalmente leggo cose buone insomma, in gran parte poesia. Scrivo haiku e, talvolta, delle ballate. Non ho mai pubblicato nulla, non ho una raccolta di quanto ho scritto, ciò che conservo è sui diari personali dei social. Posso definirmi disordinato, inquieto, fortunato anche.