
Venire al mondo significa fare esperienza della “gettatezza” (nel senso che al termine volle dare Heidegger), ovvero di un esserci (l’uomo) chiamato a trovare un senso a ciò che continuamente vive e che non riesce a ricondurre sotto il segno di un unico centro, di un’unica luce. Lontani dalle acque primigenie in cui la nostra vita è stata cullata, nutrita, accudita, vivere è un’esperienza di progressiva frammentazione e dispersione, una “…voce di confine /smembrata nella vita di ogni giorno”, che acuisce il senso di nostalgia per una dimensione originaria che sentiamo in noi, ma che avvertiamo continuamente frustrata, continuamente messa in discussione dallo spessore dispersivo del quotidiano, dal quale emerge un senso di quasi estraneità al tempo che viviamo. Eppure di quell’esperienza dell’origine rimane in ciascuno di noi una nostalgia profonda, una sorta di “sete orfana di lingua”, sete d’amore che non si placa in alcun modo, poiché l’acqua che si cerca, e di cui l’esserci ha bisogno, è “inattingibile” e la parola, che dovrebbe dire di quell’origine, è uno strumento del tutto inadeguato allo scopo.
Questo, in sintesi, mi pare l’ordito sul quale è steso questo magnifico libro di Pietro Romano, Feriti dall’acqua della PeQuod, del 2022. Si tratta di un libro caratterizzato da uno stile conciso e incisivo nello stesso tempo, capace di condensare in poche righe versi che inquietano e interrogano, che impongono salti di comprensione che solo una certa immaginazione può tentare di esperire; un libro che si pone all’attenzione del lettore per una densità tematica che, a partire dal soggettivo, esplora le dimensioni dell’“assenza” o della mancanza di fondamento dell’Esserci, e dunque l’impossibilità stessa del linguaggio di pervenire a una qualche certezza esistenziale.
Articolandosi in varie sezioni (Acque di confine, Dentro la foschia, Cancelli, Sono qui ad attendere riparo), tutte tappe, o momenti, di un percorso che indaga la condizione di estrema povertà di senso che l’uomo vive nel suo essere nel mondo, il libro si rivela anche una sorta di manifesto poetico sul ruolo stesso della poesia nel nostro tempo. Un tempo questo, come dicevo (e ritornando ad Heidegger), di estrema povertà, caratterizzato da una prolungata lontananza dall’esercizio dell’ascolto (di sé, degli altri, della realtà stessa), appiattito sull’ esaltazione pagana di entità divenute ormai vere e proprie divinità nel cuore dell’uomo (il potere, l’efficienza, il successo a ogni costo e a discapito degli altri, la tecnologia pervasiva di ogni ambito dell’esistenza…).
In questo quadro, la poesia di Feriti dell’acqua si condensa come fede nella ricerca, come atto umile teso a “mantenere la vita, sollevarla alla bocca, senza occhi a sponda della fine”. Sono questi alcuni dei versi della splendida lirica che apre il libro e che ci riannodano all’esperienza, tutta luziana, di una parola che vuole fare l’esperienza della vita, immergendosi in questa, per poterla comprendere e salvarla dall’azione disgregatrice del tempo. Mantenere la vita sarà allora il tentativo di salvare il salvabile della vita, il cui tratto essenziale è la fugacità o l’immediatezza; sollevarla alla bocca, l’atto grazie al quale il sentire, o il vissuto, potrà essere elevato a segno e suono, andando a incastonarsi nel reticolo di ciò che ormai è nella luce della mente, e quel senza occhi a sponda della fine diverrà la disponibilità a lasciarsi interrogare dallo scorrere stesso della vita e del tempo, ma senza preclusioni di tipo concettuale, ovvero andando al passo della vita stessa, attendendo che sia essa stessa a svelarci il senso di ciò che viviamo.
Ora, soffermandoci sulla enigmaticità del titolo, viene da domandarsi come possa l’acqua ferire; questa semmai potrebbe lambire, circondare, persino travolgere, ma ferire è una parola che apre a una dimensione diversa e che impone un salto concettuale; e qui la sensazione è che quest’acqua, oltre a essere una dimensione evocante una perdita non cicatrizzabile, possa essere una sorta di correlativo oggettivo di quel bisogno ineludibile dell’essere, inteso come bisogno di totalità o di unità che il tempo impedisce però di vivere.
Il percorso di ricerca di quest’acqua di cui l’anima ha sete, inizia, a mio parere, dai versi dell’XI lirica della prima sezione, quando il poeta dice: “Io da bambino, voce di confine/smembrato nella vita di ogni giorno”. Sono versi, questi, indicativi di una condizione non soggettiva, ma che connota l’esistenza di ogni essere umano al mondo. E’ vero, siamo potatori, nel nascere, di una voce che viene da un orizzonte sconosciuto, una voce che l’umanità dovrebbe impegnarsi ad ascoltare, perché si tratta della voce dell’innocenza e dell’integrità, ma l’esigenza primaria del mondo sembra essere quella di spingere a tradire quella voce iniziale, invitandoci ad accettare i compromessi con una realtà cinica e indifferente. Sembra, in sostanza, che educare sia spingere l’uomo a uscire, come dice Montale, il prima possibile, “dall’età illusa”, così ben descritta nella sua poesia Fine dell’infanzia.
Ma “fuori dalla vita e dalla morte/ le parole non conoscono sete”, poiché ciò che l’esserci cerca non è la parola che divide “le nubi dalle nubi, gli uccelli dagli uccelli, le foglie dalle foglie”, ma il “verbo che dirige il sangue e lo nutre”.
C’è necessita, dice il Nostro, di un linguaggio nuovo e diverso, di una parola che abbia la sua ricaduta sul sentire della carne, perché parola e carne sono momenti diversi di uno stesso essere, che ora comunica col corpo ora con la parola.
E ciò avendo ben chiara coscienza di come ogni lingua sia sempre una lingua “infedele” per sua stessa natura, e di come ogni parola, per quanto possa svelare ciò che è nascosto, finisca sempre per tradire quello che crede di portare alla luce, ri-velando (dunque ricoprendo) quanto pensava di scoprire.
Ecco, lontani da quell’acqua, da quella fonte originaria, c’è una progressiva perdita di umanità che il poeta analizza in dettaglio: l’uomo, in questa prospettiva, è solo un fenomeno tra i tanti fenomeni della vita. E dunque ecco che la memoria individuale diventa un coagulo marmoreo che “infuria in un tempo/ cristallizzato”; e da ciò, il cogliersi come straniero in una dimensione che invece di accogliere espelle; il sentirsi “…come dentro uno sguardo coagulato/ su un corpo che muore”; ecco il “rompersi del centro del verso, il chiuso di dio”; e la “viola sfiorire lontano dallo sguardo”. Sì, mi pare che in Feriti dall’acqua sia gridata la necessità di incontrare un volto fondante in cui riconoscersi; per questo il poeta chiede alla parola qualcosa che forse la parola non può dare: “restituisci la scheggia, l’attimo distrutto/ disintegra il volto che solo si specchia”, poiché è netta la coscienza di “dirsi soli e incompiuti/tra le braccia del padre”.
Nella lucida visione di una tale condizione, il poeta interroga la parola, la sua capacità di evocazione e la sua stessa infedeltà; si chiede, ben conscio di come ogni parola sia una “casa divelta”, quali acque cantare: se quelle rassicuranti che “conducono al medesimo sonno”, oppure le acque dell’inizio che si identificano pure con le acque “della fine”. In quel mare dell’essere dove, come dicevamo prima, si procede senza aiuto di un’impronta, la parola smette il suo abito rassicurante e si fa flebile “lanterna di versi senza più sponda”, ovvero luce che s’ irradia entro un paesaggio confuso e angosciante.
Ma, a volte, la vita ci fa dono di quell’acqua che cerchiamo, e allora, in quei momenti, Essere ed esserci si incontrano, e dunque, ecco che il cuore “ritorna al suo avvento”, eccoci “figli di neve improvvisa”; ecco riemergere la forza di rinominare il mondo, perché nominare significa ricostituire il legame profondo con le cose che costituiscono il riflesso della nostra identità.
In quell’acqua che a volte torna a scorrere in noi, possono finalmente “diradarsi le lontananze”, “ogni volto può essere di nuovo convocato”, riscoprendo la dimensione della figliolanza. E benché ciò sia una visione che fa sanguinare, si tratta di una ferita che lava e sana, che fa rinascere, ponendo le premesse di una vita nuova.
È vero, l’evento che ci apre a questa presenza è sempre qualcosa di fuggevole, tanto che presto si ritorna dentro una “foschia” nella quale si procede guidati solo dal “silenzio degli alberi abbattuti”, senza una vera direzione, dentro un paesaggio umano in cui qualcuno “cancella ogni impronta”, tanto che la percezione dell’approdo è spesso delusa e “l’abitarsi” resta un “luogo di sequestro”.
Che cosa chiedere alla poesia dunque? Cosa può donarci la parola che chiamiamo poesia, dentro questo paesaggio dell’anima in cui orientarsi è pressoché impossibile? Non diversamente da altri fenomeni, la parola è un luogo fragile, continuamente da istituire in cui l’essere umano trova conferma (di sé e del mondo); e non in virtù di conoscenze oggettive o di chissà quale a-priori, ma in virtù dello stesso atto del dire, che è sempre atto che apre un varco, che porta alla luce, diradando la nebbia in cui siamo immersi e facendoci oltrepassare i “cancelli” che ci dividono dal resto di cui siamo e facciamo parte.
Feriti dall’acqua si presenta quindi come una riflessione sul senso della parola poetica; a spiegarcelo è l’autore stesso quando dice che “l’istante in cui pronuncio la parola/appassisco e mi do alla luce”. In questo riposa il miracolo e il mistero della parola poetica. Infatti, lontano dalle acque dell’inizio, o dell’abisso, le parole non sono altro che “scatole vuote”, parole “deposte a margine”, piegate a un uso convenzionale inerente un saputo che nulla toglie e nulla aggiunge alla nostra sete di verità. Nella poesia, invece, la parola è sempre “sapiente”, atto continuo col quale possiamo ridonare noi a noi stessi, rischiarati da un processo di svelamento interiore. Nonostante l’acqua inseguita sia sempre una sorgente “inattingibile”, la parola poetica è traccia di quel fondo, di quell’inesperibile. Ciò che importa, confessa il poeta, è alimentare la sete di quell’acqua, e per quella sete “esporsi al vento, stare fra gli stormi/di uccelli che fendono il cielo. /Così si vive, lentamente il passo/nell’aria, la scrittura /tra nuvole colme di lontananza”; per quella sete mettersi in ricerca di “voci silenziose/ con i loro altrove/ raccolte tra le foglie/gelate”.
Biagio Accardo
Pietro Romano (Palermo, 1994) si è laureato in Italianistica presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna con una tesi su Nino De Vita. Ha pubblicato alcune raccolte poetiche, tra le quali Fra mani rifiutate (I Quaderni del Bardo 2018) e Case sepolte (I Quaderni del Bardo 2020, pref. di Gian Ruggero Manzoni, postfazione di Franca Alaimo), quest’ultimo classificatosi tra i libri finalisti del Premio Mauro Prestigiacomo. I suoi versi sono stati tradotti in russo («Мой дом — до молчанья», “La mia casa è prima del silenzio”, Free Poetry 2019, con pref. e traduz. di Olga Logoch, collana di poesia italiana a cura di Paolo Galvagni, traduzione di Fra mani rifiutate), greco, catalano e spagnolo, e inseriti nell’antologia Le parole a quest’ora (Free Poetry 2019, a cura di Paolo Galvagni).
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Me ha encantado la reseña. Tomo nota. Miraré a ver si está publicado en español. Gracias . Buen día.
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