
Lì scriveva nelle linee essenziali i propri sogni; erano incessanti ora, e molto difficili da ricordare. Quel giorno avrebbe parlato al signor Revercomb dei tre bambini ciechi. Sarebbe certo stato contento. I prezzi che ora pagava variavano, ed era sicuro che quello era un sogno da almeno dieci dollari.”
Truman Capote, “Padron Miseria”
“I sognivendoli spacciano sogni di contrabbando / ai passanti innamorati / o a chi ha bisogno di incastrare nel giorno / un sogno prefabbricato. / Vendono sogni che durano anche ventiquattro ore. / Sono i sogni da vivere a occhi aperti, / fatti di semplice stoffa nera e un ingrediente segreto.
Andrea Gruccia, “I sognivendoli”
Non è possibile decodificare l’opera di un autore; a maggior ragione, nel caso della poesia, della prosa e dell’arte visiva di Andrea Gruccia sarebbe un errore anche solo tentare di farlo. Allora, procedo per suggestioni e assonanze a redigere una breve nota sui suoi versi, con la sensazione un po’ bizzarra (in soggettiva) che il poeta non risieda del tutto nella realtà, si rapporti in modo “divergente” ad essa; come se – per la sua sensibilità, la sua natura multiforme e vasta – la bidimensionalità in cui siamo immersi sia ridotta; sia poco. Mi è sembrato, leggendolo – paradossalmente – che il mondo del grottesco, dei “mostri”, e di una fetta dell’esistente dalle parvenze distoniche, insensate o crude possano essere, per lui, alla fine, qualcosa che accoglie, che motiva, e che sia, al contrario, l’ordinarietà della routine giornaliera di una vita standardizzata e integrata a impersonare il lato mostruoso, inaccettabile, portatore della morte dell’anima delle cose.
Spazi ospitali, invece, per Andrea Gruccia, sono quelli onirici, della natura, degli animali, restituiti al lettore nell’ibridismo della mescolanza a oggetti, decontestualizzati, immersi in situazioni surreali o iperreali: “La formica cornuta mangiò una bambina / ma era una bambina dei sogni / e quindi abituata a brutte cose”. La somma dei versi dedicati alle piante sia selvatiche, sia addomesticate perché coinquiline a pieno titolo del suo appartamento è un tema molto battuto, ispirato da un senso di profonda fratellanza con loro. Ciò che lega il poeta alle piante è un amore nella forma più alta, libera, un modello di relazione che gli “umani” non conoscono, o che non sanno praticare, forse da conquistare: “Volete sempre qualcosa da me / invece la felce mi chiede solo acqua, / le sue radici sembrano mani / e grosse zampe di ragno pelose. / Le felci nascono già eleganti / e ricordo una cresciuta dentro un tombino / e ogni volta che passavo / avevo la bellezza sotto i piedi.” Un frammento di un’altra poesia: “Vorrei amare in modo vegetale / assorbire le tue foglie con il mio apparato radicale”.
Personalmente, ciò che mi colpisce maggiormente di Andrea Gruccia è la libertà con cui si muove, fra parola, immagine e gesto poetico. Una libertà che, mi auguro, si sparga tutto attorno a lui come un virus privo di tempo di incubazione. La libertà di pronunciare (quasi) tutto, infischiandosene dei parchi della parola recintati e ben vestiti del poetichese: “Lei e suo nonno fanno sempre lo stesso incubo / lui rimane a piangere come un vecchio sgozzato, / respira sangue da reflusso raffreddato”. Oppure: “ Polifemo una notte sognò un cane / a forma di pene che gli disse: / – non tutte le cose hanno un solo occhio -/ Così lo portò fuori dalla caverna, e conobbe la vita a forma di amore. / Passò dal rango di mito, a quello / di disabile con infermità mentale. / S’innamorò di una donna e nacque /la pazzia. Sentivano cose di un altro mondo /in questo mondo.”
Colpisce la serie di composizioni dedicate a Ester. Se questa figura rappresenti “l’anima” intesa in senso junghiano del poeta, o frammenti presi da altre forme, reali o immaginarie, rimaste impigliate nella rete magmatica del suo immaginario non ci è dato sapere. In ogni caso il nucleo – Ester riesce a coagulare una processione di metafore particolarmente potenti: “Ester quando è nervosa aspira / la polvere dal corpo. / E torna a casa con la pancia / piena di carta e oggetti. / – Caspita!- dice. Mentre le tolgo dai polmoni / una lavatrice, e un vecchio incastonato / per sbaglio tra la spina dorsale. / Non si sa come facciano entrare le cose / in lei, altalene e cantilene, libri e case.” In questi altri versi tocca al poeta tentare con sfuggente e perturbante difficoltà ridurre a unità i frammenti di questa donna che si disgrega in mille pezzi come Osiride: “Ester a volte si frantuma / mi lascia un biglietto con scritto / -ricomponimi- e non è facile / raccogliere la cenere e farne / una tecnica mista a collage.” Nonsense, una cifra originale e inaudita nell’invenzione di un linguaggio iperbolico e allucinato che ci offre una bellezza straniante, ghiaccia, fresca, immediata.
In un’altra poesia Ester è una ragazza in piedi, che parla al cellulare nella folla di un autobus, il cui corpo subisce una progressiva necrotizzazione. Nel banale “rumore di fondo” della vita comune lo sguardo corrosivo dell’autore porta a uno stato degenerativo la superficie delle cose – in questo caso il corpo giovane di Ester – buca la realtà, nell’insensibilità generale: “Una colatura di liquido nero le scende /dal lato della bocca, / le vene del suo corpo sono in rilievo; / devo dirle che c’è qualcosa che non va.”
La produzione di Andrea Gruccia è vasta; l’autore sperimenta da anni molte modalità di scrittura: scrive poesie – resoconto quasi cronachistiche sul proprio stato, sul “mal di vivere”: “Uscito con l’ansia di non avere / le benzodiazepine in tasca, / sedersi su una panchina / e aspettare che passi per fare / altri cento metri. Nel mentre / fare rapidi calcoli sui tempi / necessari a raggiungere la farmacia / o un negozio di frutta e verdura, / in caso di un panico accelerato, / sentirsi come trent’anni prima, / ancora peggio.” Compone poesie strong, appesantite (o alleggerite) da ciò che la rete a strascico del sonno ha catturato di un sogno notturno: “Dentro gli aeroporti dei sogni / le anime pascolano senza peso, / i pensieri pesanti rimangono sul fondo. / Con i sensi rarefatti, tutto si crea d’aria”.
Scrive in molti altri modi, riportando a volte, nelle liriche, l’osservazione di ciò che registra nel quotidiano, senza risparmiare i dettagli annessi: “Con la ditta per cui lavoro / finisco a volte in posti impensati, / alla RAI di milano osservo / le trasmissioni da oblò, / mentre aiuto / un mio collega a posare canaline. / Nelle sale delle regie, esce musica classica, / si entra e si esce per sistemare i fili, / mettere etichette. Una bella donna al terzo piano, / le porte di legno, i mixer, la sala mensa, / i corridoi sembrano ospedali.”
Anche in questi altri versi l’occhio dell’osservatore registra ogni particolare, ma con un esito del tutto diverso, perché l’osservazione, qui, è stata fatta quando era un bambino.
Con il suo stile asciutto ed essenziale ordisce una lista di ciò che è stato annotato mentalmente in passato durante la visita ai nonni: “I nonni avevano il tamarindo, nel mobile bianco, / e amari odori di case che hanno visto tanti inverni. / Mia nonna aveva cioccolatini a portata di una esagerazione. / Anche il bagno era un altare di cipria, e cose povere messe in ordine. / Fuori dalle finestre / il teatro delle cose. / Una centrale elettrica e una ferrovia di periferia, / le poltrone in finta pelle e i centrini sui termosifoni, come un lusso. / La neve cadeva grossa come nei quadri di Tabusso.” Quando il poeta passa a delineare l’immagine del padre, le parole sembrano acquisire una diversa caratura di nostalgia: “Avevo fiducia nelle mani di mio padre, erano salde al volante, potevo sprofondare nei sedili e dormire. / Con lui ho visto costruire un giardino che non c’è più. / Ora abbiamo smesso di andare dai parenti, / era come stare con centenari, era festa con pochi soldi, / sul divano ad aspettare una torta. / D’inverno la nebbia era il nostro mare, le fabbriche i porti, / con mia sorella contavamo le luci di natale, / come ragnatele davanti alle case. In città il tram brontolava come una barca / di legno e ferraglia. Il telefono di bachelite, si telefonava in piedi, / Ricordo l’ultima voce di mio padre, e un tempo rimasto occupato.”
Andrea Gruccia (Andrea Simone Appendino) nasce a Torino. Oltre alla scrittura, si dedica alla pittura e alla fotografia. Partecipa a diversi eventi, vincendo il concorso ParaPhotó e Porndemia a Paratissima Torino. Selezionato da Antonio Bux per la collana “Sottotraccia” pubblica la raccolta di prose poetiche e poesie “Capelvenere” con Marco Saya Edizioni (2016)
Pubblica il romanzo “Il tatto delle cose sporche” con Milena Edizioni (2016)
Nel 2018 pubblica la sua seconda raccolta poetica “L’amore a volte esagera” con Milena Edizioni e il romanzo “La nuda anarchia dell’anima” (2019)
Nel 2021, pubblica la silloge “Voci Bianche” con Marco Saya Edizioni. Nel 2023 pubblica la silloge “I piedi di Saffo” per la RP Poesia “L’Anello di Mobius”che ha ricevuto il premio con premio “Selezione Sandomenichino” e menzione d’onore al premio “Lorenzo Montano”
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