ORA TI DICO UNA COSA STRANA
Ora ti dico una cosa strana, una di quelle
che poi mi dici che sono matta:
voglio baciare tutte le donne
che hai amato, ma proprio tutte,
per ritrovare sulle loro labbra l’orma
delle tue, e stringere tra le mie braccia
tutte quelle che verranno, perché tu possa
ritrovarmi quando cercherai altrove
l’eco della mia pelle e le mie mani e la forma
che il tuo corpo ha dato al mio – esatta.
Voglio essere un uomo per possedere
tutte le donne del mondo, che non ne resti
nemmeno una che tu possa avere
senza sentirmi che ho toccato quel corpo,
voglio essere un uomo e voglio farti l’amore
e voglio farti la mia donna e voglio starti
così dentro da non ritrovarmi più
nel tuo corpo che è il mio,
voglio che nessuno ti sfiori, nessuno
nemmeno il vento.
LINGUA MADRE
siamo ai margini, in zolle di terra friabili
margini bordi che si assottigliano i fogli
sono vani bianchi di neve ché si precipita
io avevo i tuoi occhi io non ho mai avuto i tuoi occhi
tu mi ricordi che ai margini i bordi si sfaldano
sprofondano (di) parole che inghiottono il limite
siamo al limite, tesi sull’orlo di un niente
che a volte ha un nome uno spicchio amaro
di cielo che inghiotti, del vuoto che preme
io avevo le tue mani io non ho mai avuto le tue mani
sporche d’inchiostro e di pause lunari tra virgole
e punti di sospensione, è difficile trovare una piega
che accolga tra le parole nel bianco netto che esplode
l’ennesima solitudine, siamo alla fine vicini lontani
all’inizio la lingua madre ci tiene oltre un abisso e l’altro
ci ricompone ci rende segni piccini che accolgono albe
che attraversano indenni le ombre e tutti i silenzi
che inceppano il volto -con una nenia una preghiera
un gesto di voce materna- siamo ai margini della lingua
siamo intessuti di figure retoriche che ci schiantano
al suolo, siamo perduti tenuti stretti imbrigliati lontani
da ogni carezza che sanno i versi spuntati in punta di lingua
io avevo la tua certezza io non ho mai avuto la tua certezza
di ritrovarmi un giorno rannicchiati i pensieri in un foglio
come una culla candida che dondola lieve sul bordo
di un precipizio un altrove uno sguardo materno
MADRE
Madre, madre mia
che ricompongo il tuo volto
nel mio che non voglio vedere,
se tu fossi morta avrei almeno una tomba
un luogo di fiori in cui piangerti
che non sia il centro esatto di me
Madre, che ci parliamo nei sogni e mi sveglio
che vivo d’angoscia la tua assenza di sempre
-quante volte può ripetersi un addio?-
Madre, che mi hai costretta ad esserti
madre prima che figlia, che mi hai condannata
al silenzio di un ventre spoglio, di braccia svuotate,
di notti insonni che (non) parlano del tempo
in cui ero figlia amatissima, la tua
Madre, che sei partita infinite volte
e non torni e resti sempre e dovunque
quello che sfuggo che cerco che odio
che non ti perdono
Madre, madre mia
ti volto le spalle al saluto
ingoio le lacrime le nascondo le nego
dimentico il tuo abbraccio distante -troppo-
Madre che non ti perdono, perdonami tu
da lontano, in un sogno.
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UN’ECCEZIONE
Regola numero uno:
mai scrivere poesie quando
non si sa bene cosa si vuol scrivere
e due: mai scrivere poesie mentre
si sta soffrendo o si gioisce intensamente,
aspettare qualche giorno o un mese
meglio e poi, col distacco necessario,
sublimare quanto più possibile
e tre: mai scrivere poesie
(questo l’ho appena scoperto) che parlino
di sé troppo – del proprio minuscolo ombelico –
infatti si consiglia a tal proposito di recarsi
in analisi per liberarsi di ogni residuo di intimo
dolore, e perché no, già che ci si trova,
anche di un po’ d’egocentrismo
(attenzione: al bando il particolarismo
ed ogni -ismo vario ed eventuale).
Pertanto, giacché così è stato decretato,
invece di scrivere l’ennesima poesia
sul vuoto l’abbandono l’infinito eccetera
eccetera, sotto-scrivo con slancio vivace
la tavola delle leggi – altrui –
e mi astengo dall’imbrattare con i miei
(presunti) versi il bianco candido
e ovattato di ciò che si dà il caso
possa (non) dirsi l’unica Poesia,
che (non) sta autentica (se non)
altrove inaccessibile per me e
inesistente per sua natura
un’eccezione.
Silvia (Giovanna) Rosa nasce nel 1976 aTorino. Laureata in Scienze dell’Educazione, scrive poesie e racconti e partecipa a letture e reading poetici. È redattrice del blog Migranze.net.
Nel 2008/2009 ha frequentato il Corso di Storytelling della Scuola Holden di Torino.
I suoi lavori sono apparsi in numerosi siti blog letterari e riviste, e in volumi antologici editi da Ananke Edizioni, Perrone Editore, LietoColle, Smasher Edizioni, La vita Felice.
Nel 2010 ha esordito con il libriccino di racconti “Del suo essere un corpo”, Montedit Edizioni, Collana Le schegge d’oro – i libri dei premi e con la raccolta poetica “Di sole voci” per i tipi della LietoColle.
Nel 2011 ha pubblicato “Corrispondenza(d)al limite [Fenomenologia di un inizio all’inverso]” per la Clepsydra Edizioni (con immagini fotografiche di Giusy Calia), testo finalista alla XXV edizione del Premio Lorenzo Montano.
Ha preso parte nel 2011 al progetto Alfabetomorso -mostra collettiva di arti visive e poesia presso la galleria d’arte EnPleinAir di Pinerolo (To). È coautrice del progetto fotopoetico MeTe (www.polamete.net).
ottime.
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Grazie Fiorella 🙂
E grazie anche a Daìta e Salvatore per l’invito e l’accoglienza.
Un caro saluto
Silvia
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grazie per questa proposta di lettura, ciao Silvia.
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che poetessa di livello… tra l’altro impiegando un linguaggio, in apparenza, semplice, e con una forma affine a un flusso di coscienza che non è vezzo letterario, bensì, io credo, meditata elaborazione poetica…
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