la poesia per me (in me):

Così rievocavo le identità e gli irresistibili impeti sforzandomi di consolare il disincanto dell’apparenza della mia storia e dei ruoli degli altri.
Avevo sei anni, forse meno. Cominciai senza la penna in mano. Senza fogli.
Mi apparivano i doppi fondi delle cose e ne ero in balìa: non conoscevo ancora il modo per diventarne padrona.
Ancora adesso non lo conosco.
Sapevo di essere una dissonante intuizione ma quel ‘pensiero’ nascosto mi esplorava dall’alba di ogni giorno.
Mi confortava spiazzandomi tra paradossi e aforismi.
Mi faceva male a volte, mi possedeva da uomo.
Sentivo l’ingenua e pessima traduzione dell’oltre e cresceva.
Si dilatava.
Si moltiplicava.
Gli occhi spalancati hanno guardato gli eccessi dell’interiorità e sentivo che niente mi capitava invano. La responsabilità del controllo e del crollo del mio essere ha elevato i sensi.
Ogni cosa di me era in movimento.
Mi riparavo nelle rientranze della mano ma la sporgenza delle dita mi proiettava nell’aria in modo deciso e austero.
La trasgressione è diventata portatrice dell’ansia della banalità dei luoghi comuni. Così si è tracciata una strada che percorrevo da sola e pur sapendo di cancellare ogni passo, non tornavo mai indietro.
Sfumata, fluida, flessibile, spesso irresistibile, ambigua, appariscente.
Perversa e arresa.
Umile.
Persa.
Senza scampo.
Guardare nel buco dal buco qualcosa che non sapevo di avere.
Mi intrigava il fastidio, l’imbarazzo dell’etichettamento. Mi spiazzava l’indifferenza e rimuovevo il ‘tutto è possibile’. Sapeva che ero sua schiava: mi faceva indossare il velo e poi mi spogliava di fronte allo specchio.
Abitava negli aspetti essenziali della mia identità.
Dava vita a forme autentiche di reciprocità. Sapeva che non volevo la tolleranza, ma avevo bisogno di essere rispettata e compresa.
Accolta: una virtù come una forma di passaggio simmetrica scandalosa e pudica. L’immaginario fiabesco rappresentava la mia infanzia adattata al mutamento del personaggio che ero diventata.
Lei mi modellava.
Era quasi un incesto.
E non mi sentivo colpevole se mi stavo innamorando di lei e lei di me.
Un amore sparso nelle vene del polso destro, dove solo i segreti degli amanti possono mettere in scena l’affermazione del simbolismo del piacere.
Ho soddisfatto i bisogni della dipendenza per avere in cambio le poche cose che fanno stare bene.
Ho goduto il dolore presente nel ricordare la passione passata.
Ho lasciato mi violentasse il tormento irragionevole per assaporarne la saggezza solitaria. L’ho idealizzata.
L’ho battezzata dea.
Le ho lasciato il gusto di adottarmi come figlia.
Nessuno mi ha fatto domande diverse e non ero pronta al rifiuto: così la reazione di carne ha evitato i misteri ed ha accumulato giorno dopo giorno la testimonianza delle radici future.
Qualcuno mi ha chiamata ‘piantina di vetro’. Una luce di fuoco traspare. Lei lo sa.
Ha avuto il coraggio di promettermi che mi aspetta.

(da ‘Alle lumache di aprile’ LC 2010)

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(poesie tratte dalla raccolta inedita “In ascolto delle rose”)

 

Trasuda la costola di ricordi
si lamenta e danza sull’altare
riflettori accesi cinque volte
ed era festa sotto il vetro.

Mi sono assicurata i lividi
di notte mi segnavo con la croce
tentavo i graffi con la carezza
ero la morta sul calvario.

Indossavo il saio e il cilicio
ero l’orrore del suo letto
e strage degli agnelli innocenti
una guerra sulla pelle divina.

Ma ero argine di veleno
addensata di rosso e castità
poteva bastare una parola
persino l’aria avrei baciato.

Invece piovevano cadaveri
gli occhi piangevano nudi.
Ora accarezzo lenzuola di casa
le hanno messe nella mia chiesa.

Dove mi affanno in queste cose.

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E’ con il passo lento che ascolto
dalla suola si staccano le barche
sono le prime ore del mattino
quando l’alba è ancora appannata.

C’è un giorno in cui ti ricordo
come un’ombra allungata sul muro
diminuire il dolore in un lampo
la nascita anteriore al bene.

Offro candele misericordiose
come simbolo liberatorio
come il resto di una bugia
il pezzo di pelle che amavo di te.

La crosta e il gemito di viscere
in mezzo alla bocca che baciai
meridiano sotto il derma freddo
nome vero della mia schiena.

Sono la campana che sei stato
il lume della tua finta guerra
un camion sull’autostrada di notte
adesso niente ritorna dal niente.

Accarezzandomi entrasti nella mano.

Rita Pacilio è nata a Benevento, Sociologa, si occupa di Poesia, Narrativa, di Musica jazz e di Orientamento e Formazione, di Mediazione familiare e dei conflitti interpersonali, di Prevenzione delle dipendenze.
Molte poesie hanno partecipato a concorsi nazionali ricevendo la segnalazione della critica e la pubblicazione in Antologie nazionali.

Pubblicazioni

· “Luna, stelle…e altri pezzi di cielo”; Edizioni Scientifiche Italiane 2003
· “Tu che mi nutri di Amore Immenso” Silloge Sacra N. Calabria Editore 2005
· “Nessuno sa che l’urlo arriva al mare” N. Calabria Editore 2005
· Ciliegio Forestiero” LietoColle 2006
· “Tra sbarre di tulipani” LietoColle 2008
· “Alle lumache di aprile” LietoColle 2010
· “Di ala in ala” (Pacilio – Moica) LietoColle 2011
· ‘Non camminare scalzo’ Edilet Edilazio Letteraria 2011 (Romanzo poetico)

Premi
· “Luna, stelle…e altri pezzi di cielo” (vince il Primo Premio sezione “libro edito al Concorso Nazionale “Calicantus” I Edizione indetto da “ Il Gazzettino del Tirreno” (ME anno 2005)”.
· “Tra sbarre di tulipani” (riceve la Menzione d’onore Premio Bellizzi anno 2010),
· “Alle lumache di aprile” riceve segnalazione speciale della Giuria a Rita Pacilio con la raccolta ‘Alle lumache di aprile’ (2010) Lietocolle Edizioni – 15^ Edizione Premio Letterario Nazionale di Poesia e Narrativa ‘Città di San Leucio del Sannio’ (Sezione C-Poesia edita); il riconoscimento di Merito Artistico Premio Made in Italy S. Agata de’ Goti per lo stesso anno 2010 e la medaglia ArTelesiaFestival 2010 Premio speciale all’Autrice Rita Pacilio distintasi quale migliore Artista Sannita dell’anno.
Nell’agosto 2006 l’autrice presenta al grande pubblico il progetto “Parole e musica” – Jazz in versi: contaminazioni.
Si tratta di una proposta progettuale ideata e curata dalla Pacilio che sceglie per alcune sue liriche la musica di Claudio Fasoli, noto compositore, arrangiatore, sassofonista di fama internazionale.
Gli accompagnamenti jazzistici, l’utilizzo delle improvvisazioni degli strumenti e l’educazione al suono tecnico, colto e raffinato creano la giusta atmosfera per parlare attraverso la poesia un linguaggio universale: l’emozione.