“In poesia devi amare le parole, le idee, le immagini e il ritmo con tutta la tua capacità di amare”. (Wallace Stevens)
Salisbury
Il sole ripido come un emblema
sale un universo troppo chiuso e in sé
palpabile, morente. Lo studio sfocia
a mezzogiorno, uno strumento
al computo prezioso di fosfeni: cede
al cielo irreparabile, sforzo di un oceano
ignoto, perfettibile; la sua lingua cieca
un affluente inconscio. Così la sera madre
è un drappo di cristalli, il rovinoso frangersi
di un uomo insonne, il suo pensiero come
una corona di esponenti, a stele, un calcolo
che tende alla sua piana, ciclica.
Fughe
Che dice l’autostrada alla campagna
aperta, al suo silenzio erboso, ai tetti
incerti delle case costruite
per restare sole. Pentapodie
slegate, rotte come tendini,
passate per non dare tempo agli alberi
di farne rami, frutta, anomalie
dell’ombra. Cosa dice la campagna
aperta all’autostrada, alle sue frecce
di metallo fuse ai punti cardinali,
ai grill dove il riciclo umano
è un sottobosco di scontrini, pieni,
fughe alla toilette.
Il fiore
Scivola il bambino a Dio.
In fondo al pozzo anche la luna
è un piccolo narciso di bellezza,
figlio di disperazione.
Nella conta dei minuti il gambo,
la freschezza di una rosa nuova
si fa calice nell’album di famiglia.
S’incollano tra i fogli le corolle.
Quijote
L’uomo col libro in grembo cresce
i suoi capitoli dormienti.
Aumentano le pioggie estive, il
numero di personaggi nelle pozze.
Ecco la folla, la divisione dei semafori.
Punta la penna a caso sul fiocchetto
rosso, un volto acceso dalla febbre.
Ancora sembrano neuroni gli occhi
e il sole, dentro le fotografie, invita
alle finestre. L’uomo non si desta.
L’attesa è una scommessa al banco,
il pegno del divertimento. Chi sfoglia
il libro di parole vuole il suo cuscino
per attraversare il viale.
Il nastro
Moebius che più padano non esiste
dirime nella carta buona raffinati svaghi
di un accademico lindissimo clochard.
Il moto oscillatorio della sua panchina
lungo il parco, verso la trota ballerina
sempre più lontana da millimetri e palazzi,
un cantore poco popolare con accoliti
in cravatta in prima fila, fanciulline coi
diari oltre la mezz’età. Prima di finire dono
a Bagno a Ripoli posava su una cattedra
traslucida, da tribunale. Meglio uno scaffale
bruno di periferia: s’intendono a memoria
i versi con la polvere.
La Storia della Zia
Katina e Ludmilla. Il Grande Generale
sputa gusci di sparnocchi e qualche
coda di acciughine in salamoia. I fasti
della grande guerra nella gomma
degli stivaloni rigidi calpestano il Giardino
Esotico (Theodora non poteva avvicinarsi
al Nautilus se una qualunque Miss Rapallo
aveva in stanza, tra i capelli di Mignon
e il melodramma affabile di Le Petit, la chiave,
una cassetta portagioie con l’ordito
di una mappa, ettari d’avena stesi sopra
il calice del Sacro Graal).
Stefano Della Tommasina nato a Massa il 28-01-1962.
Laureato (cum laude) in Lingue e Letterature Straniere all’Università degli Studi di Pisa, nel 1986. Insegna tennis (è Maestro nazionale F.I.T.) nel 2015 ha vinto il concorso di poesia Opera Prima, con conseguente pubblicazione del libro, “Museo Bianco”. Sempre nel 2015 ha vinto il Premio Lorenzo Montano per la poesia inedita con “Global”. Entro la fine del 2016 è prevista l’uscita del libro di poesie “Global”, per Oedipus edizioni. Alcune sue poesie sono state pubblicate in Critica Impura, Interno Poesia, La Presenza di Erato, Versante Ripido, Forma Vera . Inoltre è presente in alcune antologie edite da Lietocolle.