Le prime volte non c'era stanchezza di Luigi Finucci ERETICA edizioni, 2016
Le prime volte non c’era stanchezza di Luigi Finucci
ERETICA edizioni, 2016

nota di Daìta Martinez

“In punta di piedi
apro il mistero del poeta”

ed è in punta di piedi che Luigi Finucci percorre il suo luogo bambino, quello spazio privilegiato del sensibile che si accoglie di parola nel segno gentile di una carezza accaduta sulla pagina. Una carezza che diventa narrazione di una realtà, di un mondo nel quale, scriveva Hannah Arendt, “entriamo quando nasciamo … E’ ciò che abbiamo in comune non solo con quelli che vivono con noi, ma anche con quelli che c’erano prima e con quelli che verranno dopo di noi. Ma un tale mondo comune può superare il ciclo delle generazioni solo nella misura in cui appare in pubblico” e che qui il poeta coltiva nella cura del ricordo ma altresì dell’attesa dove “bastavano quattro occhi / e una stella cadente / per sentire in lontananza” il profumo che preserva in sé la memoria delle vecchie cose, cadenzata presenza affidata al tempo che è misura e ritorno, passaggio e persistenza vissuta e percepita quasi momento di rifondazione di un sentimento collettivo perché è di ognuno il rinviarsi appartenenza nella genesi che “Il giorno dopo / nelle nostre case / abbiamo immaginato” fluire di sogni e desideri divenuti adulti e tenuti infanti perché, se è vero che ogni bambino è un uomo piccolo e ogni uomo è un bambino grande, il palpito d’epoca va ripensato in un continuum tra quelle prime volte di quando non c’era stanchezza e tutte quelle altre prime volte che “un bacio è nato / d’improvviso / sul dorso del marciapiede”, malgrado la stanchezza.

Prima delle quattro dormono

Quando i gerani stavano
sui balconi, d’estate
la brezza spostava la cortina.

Le corse potevano attendere
ma le giornate non erano
così lunghe, fremeva
per un attimo il gioco
poi il rumore svaniva,
il tempo e le colline riposavano.

Prima delle quattro
c’era il sole e la stanchezza,
le case buttavano i lucchetti
e lungo i ruscelli
i pesci tornavano indietro.

Tutto il resto l’ho dimenticato

Quella sera nella stanza
c’era la musica, di lato
si sentivano le formiche stridere
e le foglie osservavano
in silenzio.

Lì fuori
seduti sul cemento
stavano le ansie
e gli occhi grandi.

– Gli occhi grandi! Gli occhi grandi! –

non si dimenticano,
tutto il resto è finito
nel gioco delle prime volte.

Nessuno si è girato

In mille anni
è stato visto un bacio.

Strideva di lato
tra i rumori della folla,
sorrideva di tramonti
e saliva;
un bacio è nato
d’improvviso
sul dorso del marciapiede,
nessuno si è girato
per applaudire,

[eppure ho letto di guerre]

e due steli
hanno provato a colmare
la distanza dal petalo.

I sensi si sono riposati

Delle botteghe in cui sei stata,
una aveva il profumo della consuetudine.

Alla porta, i sensi si sono riposati
che come fanciulli, d’estate
origliavano i sapori.

C’era anche un libro sopra al pane
come ad indicare, una metafora o
forse lo stesso significato.
Gli occhi non hanno visto lacrima
nei corridoi della bottega
per tutto il tempo,
hanno pensato al colore
del melograno.

Soggiogati per ore, i sensi
si sono perduti,
hanno ritrovato sull’uscio
solo un corpo

– e come raccontava la storia –

delle botteghe in cui sei stata,
una aveva il profumo della consuetudine.

In mezzo a noi

Nel quadrato della discordia
trovo tutto,
fuorché il necessario:
un sorriso e un pianeta,
un applauso di echi
abissi,
basta un passo più in là
e

[come tanti anni fa]

mi siedo
nella casa degli alberi alti
dove il bianco si confonde
col nero,
dove non ci sono leggende
padrone
soltanto terra bruciata
ed un cuore.

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