PARTE PRIMA. YUCATAN
La poesia è un lunghissimo addio.
***
Cercava la risacca nelle pinete
fiutava l’ombra di un ago sul fondale,
la panacea di un abbandono.
Conta fino a zero, le dissi
salta nell’arco cinerino.
È tutto calmo
qui è davvero tutto calmo,
il sole è una biglia di benzodiazepine.
C’è ancora un intreccio
di gelsomini carbonizzati sulla pietra.
L’estate,
una valanga di aceto sopra i fiori.
Ma in questo valzer di occhi crociati
non dire una parola,
non parlare.
Troveremo un altro modo per fare alta la vita.
***
Amin, è quasi giorno,
è la resa dei fuochi invernali
l’ectoplasma del divenire.
Dio, gheriglio di stella
insegnaci a svanire
poco a poco
insegnaci il dialogo amoroso
tra i picchi delle braci
e l’arpionata notte.
Adesso è tutta luna nuova
mentre ancora
tiri a sorte la vena
dio anatema,
ti sfiori trasognato le palpebre…
Quanti millimetri ci separano dal buio?
***
La risacca ci insegna il solo rito possibile: lo smisurato
addio.
PARTE SECONDA. TEOREMA DEI ROGHI
Se vuoi arrivare alla lacerazione
non dire una parola
che sia una.
***
io non torno più
Ricavo dai roghi autunnali
un altare di gemme,
è il menhir dell’esiliata luna.
Io sono Giovanni
e non ho mai chiesto di essere amato.
L’amore stringe nel seno
la sorte del tuono:
frantumare il vetro dell’esistenza.
Così noi, ebbri di giovinezza
corriamo a perdifiato nell’oltrenero,
succhiamo avidamente
il fuoco rimasto nelle pietre
e brindiamo / all’ombra che fu delle pinete.
Ogni cosa rivela
quel nulla che siamo già stati.
Tutto simula la quiete.
Poco distante, un uomo prende a pugni la rena.
Dice: “Credimi, noi non stiamo per rinascere.
Nessun verso sconta la primavera”.
***
Torno allo stato embrionale della vita
nel sonno ibrido del feto,
dove un diagramma di materia nuova
riproduce fedelmente
il calco delle ossa
la nomenclatura delle vene
e un incavo d’ali nelle scapole.
Questa è la divinazione dei corpi.
***
È questo il destino dei corpi:
le amnesie lunari,
la lesione tellurica del buio.
Mai nessuno / ci ha chiesto di essere vivi.
PARTE TERZA. BE AWARE OF GOD
Venga l’urlo luciferino, korai sfigurate dal sonno. Venga
il primo giorno / senza luce, una parola che dica mai più,
un salmodiare di fuochi estinti e fiori divelti sul davanza-
le. Venga il primo giorno senza luna, i feudi della porno-
grafia: il solocorpo di mamma da vangare.
***
25 novembre
1.
Qui, dove adesso siamo,
nella sorgente dell’ultimo vedere,
ogni cosa è già vissuta:
l’estate che tormenta i gerani,
l’uomo che grida nel vento.
L’ariosa calma che segue l’amore.
Diego Maradona che dice:
yo sé la culpa que tengo.
dentro un cielo che fu lunato / io, oscuro natante…
Rinuncio al cielo-ziqqurat,
baratro di uccelli.
Rinuncio ai falsi om,
al sacerdozio della luna.
Stanotte muoio cane e poi rinasco
ragno di luce estenuata.
Anche tu la chiami morte
questa armata / silenziosa, senza luna?
La preghiera del giorno: siamo muti.
Tutto si separa per venire alla luce.
***
Non so cosa amo,
ma so cosa feconda il mio verso:
fare del corpo la misura del tremendo.
Non mancare
questo appuntamento / con l’osceno,
l’uomo che si dispera sopra i seni.
PARTE QUARTA, LUCE CARIATA DALL’AVVENIRE.
Scrivere, ammettere la colpa.
***
In un sesto di vento
il chiurlo feconda il buio,
un fiore mezzo sacro
che ancora gemma nel sonno.
Nessun uomo, pensai
si salva da un’infanzia felice.
Nella babele del quasi giorno
io non sono solo.
***
Vantablack
Xanita ballava
la prima musica dopo la fine.
Poi prese un frutto
e lo scagliò nel buio
come a dire
che anche da morti
si serve la vita.
***
Quando tutto sarà finito
sarà il sonno a irrigidire gli occhi
ma prima della fine
c’è una retrospettiva lenta dell’infanzia,
una campionatura degli amori.
Poi il respiro si risolve
in un orgasmo neuronale,
è come un’implosione di pianeti nella mente
una turbativa siderale
del corpo che ritorna seme.
Milo De Angelis, estratto introduzione di “Dialoghi con Amin“. Giovanni Ibello è il più antico dei nostri giovani poeti. Il suo verso si immerge nelle origini, possiede il respiro cosmico dei poemi greci e indiani, è ricco di archetipi, presagi, divinazioni, tutto un universo di simboli arcaici che però viene esplorato da una parola conficcata nei nostri giorni. La metafora regna sovrana nelle pagine di Ibello e connette creature infinitamente lontane tra di loro – “il cimitero della sete”, “una giostra di tagliole e vento”, “la chiromante delle ustioni”, “il santuario delle nebbie”, “flagelli di margherite” “la nomenclatura delle vene”, “il battesimo incendio”, “l’alba dei rasoi” – creando legami sotterranei e inattesi, gettando il mondo visibile nei baratri del mondo infero […] Dialoghi con Amin è un grande e originale poema notturno ed è un poema dell’imminenza. Qualcosa di terribile sta per accadere, ci viene detto e ripetuto. “Amin, è quasi giorno” e noi sentiamo che questo “quasi” è una soglia magica e questo “giorno” muterà la nostra vita, come nelle aubades della poesia provenzale, quando il giungere dell’alba separava gli amanti e li consegnava alla loro solitudine. Qualcosa di immenso sta dunque per compiersi. Ma non sappiamo ancora di cosa si tratta, non riconosciamo il volto del Mutamento.
Sappiamo che non è un semplice amore, una semplice morte o una semplice rinascita. Questo ci viene detto più volte. “Credimi, noi non stiamo per rinascere”. E non si tratta nemmeno di un paradiso o di un inferno. No. L’imminenza continua a nascondere i suoi piani e ci lascia all’oscuro, come in una moderna Apocalisse, per citare un’opera cara a Giovanni Ibello. Rimane quest’estrema vigilia nel cuore della notte, rimane “la lesione tellurica del buio”, come scrive il poeta. “Di quello che sognavi veramente / non resta che un silenzio siderale / una lenta recessione delle stelle”. Rimane qualcosa che non ha tratti umani. “Ogni cosa si annuncia mentre si sfigura”.
Il silenzio è uno dei protagonisti di questo libro splendido e irripetibile. Ci impone le sue regole di ascesi e di clausura: le nostre preghiere avvengono nel buio degli hangar e noi le ripetiamo come giaculatorie dinanzi a un dio demente, con la paura di essere inghiottiti dall’afasia o da un mutismo sbigottito, un addio che ci attende e suggella ogni nostro gesto, rendendolo così glorioso e vano, sempre sul punto di precipitare in un tacito burrone di ombre. Come ci ricorda il poeta: “se vuoi arrivare alla lacerazione / non dire una parola / che sia una”. […] Vorrei concludere soffermandomi su un’altra epigrafe che Giovanni Ibello colloca in una posizione importante, una dedica situata in apertura di libro: “alla poesia, che mi farà solo”. E davvero la solitudine regna sovrana in queste pagine. È una solitudine carceraria, uno stato di isolamento rigoroso, una reclusione che non ammette sconti di pena se non qualche istante di libertà vigilata in cui il poeta getta uno sguardo sul mondo prima di tornare in cella. Ed è uno sguardo prodigioso e lancinante, quello di Ibello, uno sguardo che arriva a farci dubitare dell’esistenza stessa – “mai nessuno ci ha chiesto di essere vivi” – e ci proietta in un interregno di fantasmi al di là di ogni presenza terrena, assediati da scene perdute che affiorano all’improvviso o da intuizioni divinatorie sul destino che ci attende. “Vita sempre sognata, mai vita” […].
Giovanni Ibello vive e lavora a Napoli. Nel 2017 pubblica il suo primo libro, Turbative siderali (premio Città di Como Opera Prima e premio dell’Osservatorio Letterario fondazione Lermontov). I suoi versi sono stati tradotti in sei lingue tra riviste, lit-blog e antologie di poeti italiani all’estero. Nel 2018 si aggiudica il premio Città di Fiumicino per la sezione “Opera inedita” con una prima versione del poemetto Dialoghi con Amin. Nel 2020 una sua antologia poetica viene selezionata e pubblicata in Russia dall’editore Igor Ulangin per la collana “Contemporary Italian Poetry” diretta dal critico e slavista Paolo Galvagni (traduzioni di Tatiana Grauz). Nel gennaio del 2021 inaugura la rubrica “I poeti di trent’anni” curata da Milo De Angelis per la rivista “Poesia” di Crocetti.