Il tessuto lessicale di Feriti dall’acqua di Pietro Romano è talmente funzionale al mondo psichico da cui attinge la sua materia da illuminare un’affermazione dello psicologo e pedagogista russo Lev Semēnovič Vygotskij, secondo il quale «Una parola piena di senso è un microcosmo della coscienza umana». La lingua di Pietro Romano, nell’insistere, variandoli, su pochi termini ricorrenti (acqua, casa, finestra, sentiero, passi, le figure genitoriali) facenti parti di un dizionario che dà forma, appunto, a un microcosmo personale, e su sintagmi solo apparentemente oscuri, riesce, infatti, nel duplice intento di chiudere la propria scrittura in una sorta di cerchio separato, e allo stesso tempo di trasferire sul piano dell’assoluto certi accadimenti (o ferite) della vita privata, amplificandoli e universalizzandoli attraverso l’uso di simboli che abitano da sempre la psiche collettiva, così da collocarli in un tempo senza tempo e in uno spazio senza spazio, simili più a quelli onirici che a quelli reali.
Il poeta, insomma, realizza il difficilissimo compito di fare coincidere l’io psichico con il colore e la qualità sonora del verso, e l’oscurità, in cui spesso sprofonda, è quella stessa dei processi interiori dell’anima, tanto che il lettore rischia di non venirne a capo se non abbandona la caparbietà della ragione a favore del sentimento e dell’irrazionale, lasciando scorrere la forza icastica delle parole «non destinate, come le colombe di dopo, al sacrificio della comunicazione, attraversando vuoti e soglie, frontiere, parole senza il peso di comunicare o notificare alcunché» (M. Zambrano).
Senza dubbio buona parte della complessità della scrittura di Romano nasce anche dall’ambiguità delle figure archetipiche utilizzate, quali l’acqua e la casa.
La prima, presente nel titolo insieme a un participio inaspettato quale “feriti”, rimanda alla valenza distruttiva dell’acqua che, tuttavia, in molti testi della raccolta, si riappropria delle sue qualità positive di purezza e di fertile vitalità, e, grazie a quest’ultima che ben si associa alla funzione delle acque uterine, si connette al principio di maternità, alludendo ad un’esperienza molto simile a quella della scrittura poetica, tant’è vero che la figura della madre che l’ha messo al mondo e quello della poesia che genera “l’altro” del mondo e della vita in alcuni testi si sovrappongono.
La madre con le «mani tronche», incapaci di abbracciare e custodire il bambino «smembrato nella vita di ogni giorno», lo lascia solo di fronte al mondo così come la Parola, la quale nomina le cose, ma non le possiede e non fa argine all’enigma del reale e al suo disordine: «Come tradurre l’azzurro reso del cielo, quando con l’odore di terra riarsa, le parole / separano le nubi dalle nubi, gli uccelli / dagli uccelli, le foglie dalle foglie?» e, dunque, l’acqua «è morta» e la parola «cava». È lo stesso assillo che tormentò Alejandra Pizarnik, autrice molto amata da Romano, quando scrive: «no / le parole / non fanno l’amore / fanno l’assenza / se dico acqua berrò? / se dico pane mangerò?». La poeta, nel corso di un’intervista concessa a Martha Isabel Moya, afferma: «(…) il linguaggio non può esprimere la realtà (…) possiamo parlare solamente di ciò che è ovvio (…) da qui i miei desideri di fare poesie terribilmente esatte (…) e di lavorare con elementi delle ombre interiori», che per lei hanno a che fare con l’infanzia, le paure, la morte, la notte dei corpi; e che Romano chiama “le voci di dentro”.
Mi sembra molto interessante mettere in rilievo questo legame con la Pizarnik per cercare di capire la separazione fra il corpo delle cose comuni e quello delle cose indicibili, quello fisico e quello psichico e, ancora, tra il primo e il corpo poetico. E la conferma ci viene dalla seconda e ricorrente figura archetipica della casa, se nel linguaggio della psicologia la casa coincide con la nostra anima e con il suo linguaggio ancestrale e, perciò, ancora una volta, con la figura materna. La casa di Pietro Romano è uno spazio scarsamente arredato, spesso in ombra, dove in un «tempo cristallizzato» infuria il passato, le cui finestre sono spesso chiuse, e, se si aprono all’esterno, fanno vedere un cielo popolato per lo più da uccelli rapaci.
È il sintomo, questo spazio concluso, di un disagio interiore, di quella ferita lontana a cui fa riferimento il titolo, il quale chiarisce che essa, inferta in età infantile (l’acqua è la sorgente, l’inizio), non riesce a rimarginarsi. Né ciò appare possibile appellandosi al padre, a cui l’autore dedica uno dei testi più intesi della silloge (pag. 55). Esso, se da una parte è emblema di autorità e protezione (in ciò coincidendo con una personale esperienza di mancata intesa dialogica con il proprio genitore), dall’altra raffigura la divinità stessa, la cui muta distanza («il chiuso di Dio») accresce quella sete d’amore a cui fanno riferimento i tanti testi metapoetici che alludono all’atto della scrittura, a cominciare dal primo in cui la vita viene sollevata alla bocca perché possa essere nominata, per finire a tutti gli altri nei quali, di volta in volta, esso coincide con la sensazione di essere simile al «legno morto a un passo dalla luce» o con quella di un appassimento di sé stessi per rinascere e ridarsi in un movimento senza sosta dalla vita alla morte e viceversa, in un perpetuo quanto fecondo spaesamento, poiché ogni autentico poeta procede, esaurita una via, su altre sconosciute «all’interno, come osserva Celan, in un nuovo accadere linguistico».
È la percezione che lascia la lettura di questo libro, che se da un lato si è proposto di indagare la ferita delineatasi da subito e in seguito acuita dalla mancanza di senso delle cose, dall’altro sembra alludere ad un’attesa, a una trasformazione necessaria all’interno del flusso inarrestabile di un divenire in cui tutti siamo immersi. Per questo, quando parla di questo libro, Pietro dice di sentirsene già distante, di non riconoscersi più in esso. È ciò che avvertono tutti i poeti, ché altrimenti ogni libro sarebbe copia del precedente, ed invece scrivere significa percorrere “sentieri innalzati al cammino” con negli occhi un qualche nuovo presagio.
Franca Alaimo