Una scrittura rastremata e multistrato quella di Salvatore Sblando, autore della generazione degli anni Settanta essendo nato a Torino nel 1970,  che prende le mosse dalla tranquilla esposizione di un «io» che abita (poeticamente parlando) i luoghi dove si è consumata l’esistenza. I luoghi fisici sono importanti per questa poesia, tutta scandita in un metro libero, in un linguaggio-perimetro dove ci sono  onde linguistiche e  zattere simboliche che si muovono in tutte le direzioni spesso non compatibili entro una omogeneizzazione stilistica.

La città ne emerge per scorci e per abbagli come un labirinto della duplice perdita della memoria e del tempo, cioè del passato e del futuro; così colui che si arrischia ad entrarvi è lo straniero (colui che non ha futuro ed ha perduto il passato), colui che riscatta il passato (come morta cosa) per l’acquisto del tempo futuro (come cosa viva). Una «storia» raccontata in un tempo-spazio irrealistico e concreto. Così, il viaggio dentro la sfera della intimità è un viaggio senza ritorno, all’interno del «pozzo» senza fondo della militarizzazione e della ibridazione dell’anima (e del corpo) compiute dalla civilizzazione delle società dell’amministrazione totale descritta da Adorno. Ciò che è morto è il tempo morto reificato quindi morto per sempre, ma in attesa di una resurrezione che soltanto la forma poetica può consentire. Per Sblando ciò che è morto un giorno tornerà a rivivere (in altra forma e in un altro universo) ma sarà irriconoscibile… è questo il senso ultimo del discorso poetico.