NICOLA GRATO DELLA POESIA DICE
La mia è una ricerca poetica sulle cose. Una ricerca linguistica, innanzitutto, perché le cose sono nomi e quei nomi devono poi “suonare e risuonare” in poesia. A volte un santino, una scatola di bottoni, il comodino bois de rose dicono molto di più rispetto alla loro tradizionale funzione di cose: sono segni di un mondo perduto ma soprattutto emblemi di persone che queste cose hanno toccato, visto. Così le parole emblemi sono, infine, fili tesi coi morti, dialoghi aperti, relazioni. Vivo in un piccolo paese, da più di vent’anni mi sono trasferito da Palermo – mia città natale – prima a Villafrati e poi a Mezzojuso. Il paese è per me punto di osservazione e racconto del Mondo: osservo il nostro vecchio mondo da un paese vecchio, abbandonato ogni giorno di più. Ferito. Questa è la mia Amazzonia, il mio albero Hibakujumoku che devo custodire: «L’anima mi guarda, seduta/mentre scrivo le preghiere mattutine/– stare in questa misura, il giorno/sarà per tutti –//l’aria si ferma/ogni cosa respira attenta nella sua resa. /Custodisci tutte le cose/abitale nel tempo dell’altezza/misurata, il petto scoperchiato come/un’offerta alle piccole/bocche del mistero» (Sebastiano Aglieco).
Il tema del restare, la restanza discussa e teorizzata da Vito Teti, è in definitiva il centro della mia scrittura poetica e, più precisamente, della mia vita. È vero che io mi sono spostato tantissime volte: ho cambiato case, abitudini, visuali affacciandomi dai balconi delle mie abitazioni; un tempo il mare del Porto di Palermo, ora una collina di querce e roverelle, la Brigna di Mezzojuso. I miei occhi hanno visto e assorbito città e paesi, facce di palermitani distratti e facce di vecchi dei paesi. In questo continuo mutamento che non è mio particolare di certo ma è dell’uomo in sé, di tutti gli uomini nella storia, io ho trovato la radice profonda del restare. Abitavamo con mia moglie e mia figlia in campagna a Villafrati, abbiamo deciso di “tornare” in paese. Tornare, certo valeva per Salvina mia moglie, che è nata e vissuta in paese, a Mezzojuso. E per me? Valeva una scommessa: restare in un luogo che molti abbandonano tutt’ora, restare come prospettiva etica, come ricerca di profondità, come ricerca poetica.
Anni fa, a primo pomeriggio nella controra di luglio, sentii discutere un uomo e una donna in arabo in un vicolo di Mezzojuso: ne ho ricavato una fortissima impressione di spaesamento, una vera e propria vertigine. Quest’anno è accaduto un fatto che ricollego idealmente a questa esperienza: il mio ultimo libro, Le cassette di Aznavour, è stato tradotto in Algeria per l’editore Dammah di Algeri. La traduttrice, Aaml Bouchareb, mi ha detto di aver voluto tradurlo perché la mia poesia parla culturalmente al mondo arabo. Per me questo è un onore e una responsabilità: non si scrive impunemente, occorre assumersi il rischio di ricercare sempre, di esplorare il mondo pazientemente ascoltando storie, racconti, osservando minuziosamente la geografia dei luoghi, i loro messaggi chiarissimi talvolta, oscuri in alcuni casi. Ma tutto ci parla, bisogna decifrare i codici.
LA SUA POESIA CI DICE
da Inventario per il macellaio, Interno Poesia 2018
rincasata, eri presa
dalle lamentele di tua madre
ormai cieca, dalla polvere consueta
aggomitolatasi sotto le poltrone arancioni;
clemenza per chi cade e cade male
e si lascia indietro il pane, ché non sa tornare;
pietà per le cose perdute e per la luce sul mare
della luna maliarda, per la savoiarda zuppa
di caffellatte che hai lasciato affogare
nella tazza; pietà per la terrazza ora sola
e colma di cenere e sale, per la gatta che ti ha
preceduto, per i vestiti di tuo padre
marciti nell’armadio – per ogni cosa che ha
senso d’abbandono e d’antico
per il sorriso ultimo tuo davanti alla porta.
da Le cassette di Aznavour. Macabor Editore 2020
le cose che lasci
una giacchetta di lana marrone
una gonna di tweed maciullata
dalle tarme, pacchetti di Hall
con qualche carmella ormai ridotta
a un tuttuno vischioso. Poi tabacco
sparso ovunque, ma specialmente al fondo
delle borse: quanto spreco, si muore
lasciando tabacco sparso, giacchette
lise, gonne tarlate, caramelle squagliate
parole smozzicate sui biglietti
sulle ricevute dell’Agenzia
delle entrate.
lode
lode al grano, a una giornata di mare
senza ritorno, al sonno dei bambini
alle veglie sulla soglia di fiabe
che abbiamo letto tra sbadigli ma
cercando comunque di modulare
la voce; lode all’acqua quando cade
dal cielo ma piano, e dà la vita
alla terra screpolata.
La vigna
l’uomo l’ha attaccata, aspettiamo l’uva
aspettiamo il mosto, e un sorso di vino
per questo nuovo giorno.
DICONO DI LUI E DELLA SUA POESIA
Maurizio Rossi, dal sito www.poetidelparco.it
Il “macellaio” per il quale Nicola Grato (Inventario per il macellaio, Interno poesia Ed., Latiano, BR, 2018) fa l’inventario, è il Tempo che tritura ogni cosa, la Morte che rende orfane le persone, la Superficialità, che non dà valore a nulla, anche foto, biscotti zuppi di latte, spighe e fichi secchi. All’uomo, al poeta, resta il mestiere di enumerare, nominare, le persone o cose che hanno perduto l’esistenza o la necessità, un compito solo in apparenza subalterno: la parola, suono e senso, non appartiene – se non “l’ultima”- alla morte o al destino. Infatti, Nicola sa che le parole di cui son fatti anche gli “inventari” ritrovamenti- inventarii (lat.) – poiché “animate” dal fuoco del corpo, sono insieme oggetto e soggetto del rivivere attraverso il ri-enumerare “non vale la parola / – ogni parola nostra – / se non passa dal fuoco del corpo”.
Franca Alaimo, dalla Prefazione del libro Le cassette di Aznavour, Macabor editore, 2020.
(…) Di fatto tutti i testi poetici dell’autore siciliano hanno una cornice stagionale, la cui mutevolezza può contare però sulla legge dell’eterno ritorno, al contrario degli esseri umani: estati e inverni, cieli tersi e tempestosi, paesaggi costituiscono il contenitore indifferente e monotono (per quanto scenograficamente bellissimo e potente) dei fatti, delle faccende umane, delle fatiche, dei sogni, in cui il passato è comunque meno labile del futuro, ché, anzi, la luce che illumina di senso il presente proviene tutta soltanto da quello. In questa personale percezione del passato molto importante è la funzione delle fotografie. […] Il fatto è che l’uomo cerca sempre di trovare il senso ultimo della vita, di imprigionarla in certe forme per meglio conoscerla, ma le forme delle cose e delle persone amate scompaiono ininterrottamente. Lo scrittore assolve questo rito ricorrendo alle parole (“le parole piccola luce di sole”) con le quali affronta l’interminabile lutto, gettando la loro rete nel mare della memoria per tirarne su una qualche forma residua, un guizzo che risplenda almeno per un poco, essendo la stessa rete di parole che li evoca una magnifica illusione sonora. Bisogna allora che le cose dette, gli individui evocati assumano un valore simbolico che li renda archetipici per aspirare ad un significato universale. Se si legge da questo punto di vista la poesia di Grato, si ha, infatti, l’impressione che, più si infittiscano i dettagli (nomi di vie, città, paesi, quartieri, feste locali) più lo spazio si dilati annullando ogni specificità geografica, e che le storie individuali emblematizzino una condizione esistenziale universale: l’uomo, qualunque sia il luogo, il tempo, l’insieme dei suoi affetti, è destinato all’indistinzione dell’annientamento. La malattia, la vecchiaia, così spesso presenti nei versi del poeta, siciliano, sono condizioni che preparano lo sbiadimento progressivo dell’individuo. Non si tratta, allora, di ricordare un micro-cosmo con nostalgia. Non esiste un viaggio di ritorno. Resta il dolore, ma impotente e anche questo individuale e temporaneo. Forse si tratta, raccontando e attivando la memoria, di creare spazi sempre più ampi per la sacralità nella dimensione quotidiana. […] E tanto più umili sono le cose di cui l’individuo si circonda (case, arredi, oggetti domestici, vesti), tanto più cresce la distanza fra l’apparente semplicità della vita e il significato universale di una dolenza in cui ogni cosa sprofonda, e ogni uomo, sia pure animalmente senza il soccorso o il filtro della cultura, sente la lacerazione dell’essere al mondo. Questo significato universale non contraddice la sicilianità dell’ambientazione, la scelta di una lingua che suona nel suo complesso dialettale, non solo perché ne accoglie molti termini (fra l’altro usati soprattutto per la loro efficacia sonora), ma perché ha della parlata siciliana quella caratteristica di toccare i vertici della ricerca filosofica attraverso una strumentazione lessicale e sintattica povera, legata non tanto agli strumenti sofisticati della ragione, quanto all’evidenza dell’osservazione concreta, e a quella capacità di giungere al cuore delle questioni prendendo a paragone le cose più umili, così la nuvola che “sale/come una ricotta nella pignata”, o la preghiera mattutina che assume la forma di “una pagnotta calda con l’olio”, o “il volo del moscone” che ridesta la vita e “contiene la voce di tutte le cose”. Nessun crepuscolarimo, allora, come qualcuno sarebbe tentato di dire, piuttosto quella scuola di grandi scrittori siciliani (quali Verga, Consolo, Bufalino, Bonaviri), che non esclude, per certi aspetti, una consonanza importante con Pascoli, Caproni, Penna, Montale e altri la cui lezione pure traspare e che colloca a buon diritto Nicola Grato all’interno del panorama della tradizione letteraria italiana, ma con notevoli spunti di originalità, che gli permettono di essere perfettamente riconoscibile fra molti.
NICOLA GRATO E I POETI “INFLUENCERS”
Ho iniziato a interessarmi di poesia al liceo, leggendo tutto Montale: il primo libro del poeta ligure che ho letto è stato Satura, poi via via tutti gli altri e anche il Montale prosatore. Insomma: uno studio approfondito sul ligure, anche grazie alla guida del mio professore di Italiano, grande studioso di Montale. Poi ho scoperto Pasolini e Caproni, che ho letto voracemente. Tra i miei riferimenti poetici “i due Rocco”, Scotellaro e Brindisi, grandi poeti lucani. Studio da qualche anno la poesia dialettale contemporanea, ricchissima di poeti straordinari: Nino De Vita, Sebastiano Aglieco e Bianca Dorato gli autori che amo, i cui temi e il cui stile sento vicini alla mia espressione poetica.
In dono a Nicola Grato e ai lettori di larosainpiù, di Rocco Scotellaro, da Margherite e Rosolacci,
Noi non ci bagneremo sulle spiagge
a mietere andremo noi
e il sole ci cuocerà come la crosta del pane.
Abbiamo il collo duro, la faccia
di terra abbiamo e le braccia
di legna secca colore di mattoni.
Abbiamo i tozzi da mangiare
insaccati nelle maniche
delle giubbe ad armacollo.
Dormiamo sulle aie
attaccati alle cavezze dei muli.
Non sente la nostra carne
il moscerino che solletica
e succhia il nostro sangue.
Ognuno ha le ossa torte
non sogna di salire sulle donne
che dormono fresche nelle vesti corte.
Nicola Grato (Palermo, 1975) è laureato in Lettere moderne con una tesi su Lucio Piccolo. Insegnante di scuole medie, ha pubblicato tre libri di poesie, Deserto giorno, La Zisa 2009, Inventario per il macellaio, Interno Poesia 2018, e Le cassette di Aznavour, Macabor 2020; uno di racconti, Teresa vestita di vento, Aletti 2015 oltre ad alcuni saggi sulle biografie popolari (Lasciare una traccia e Raccontare la vita, raccontare la migrazione, in collaborazione con Santo Lombino); sue poesie sono state pubblicate su riviste cartacee e on line e su blog quali: “Atelier Poesia”, “Poesia del nostro tempo”, “Poetarum Silva”, “Margutte”, “Compitu re vivi”, “lo specchio”, “Interno Poesia”, “Digressioni”, “larosainpiu”, “Poesia Ultracontemporanea”. Ha svolto il ruolo di drammaturgo per il Teatro del Baglio di Villafrati (PA), scrivendo testi da Bordonaro, D’Arrigo, Giono, Vilardo.
La casa editrice Dammah di Algeri ha tradotto per la sua collana di poesia Le cassette di Aznavour nel 2021.