chitarraIl poeta è un uomo come gli altri che vive eventi capaci di accrescere oltremisura la sua dotazione emotiva; ma questa cosa accade a chiunque, anche al non poeta. Nondimeno, il poeta si comporta diversamente rispetto agli altri dopo l’evento che ha provocato quella “scarica” emotiva: per lui, spesso, il ricordo dell’emozione patita non si arresta alla semplice espressione di essa in modo spontaneo. Egli è capace, o quantomeno, possiede le potenzialità per andare oltre questa espressione primaria, in buona misura inconsapevole, e per trasfigurare l’emozione espressa in un’opera che non rievoca direttamente l’evento o il fatto che l’ha originato, ma si collega ad esso in modo sottile, non immediatamente evidente per chiunque.
Dal mio punto di vista, credo che sia questa cosa che mi spinge a scrivere. Ed è fondamentale per me l’essere letto; non per vanità, bensì perché solo osservando l’effetto che i miei versi producono sul lettore, forse comprendo meglio me stesso e il senso di quel che ho scritto. Sebbene sia un’attività prettamente personale, la scrittura della poesia si completa attraverso il confronto e la consapevolezza di quel che sperimenta chi la legge.

Solitudine affollata

Ma cos’è questa affollata solitudine
che coglie gli amanti non più amanti
quando i baci diventano sbadigli
e le carezze hanno il sapore di un déjà-vu?
Dopo tutto quello che è stato vissuto e sentito
la fine è amaramente priva di retorica.
E le notti tornano dialoghi con se stessi.


Il lungo giorno degli addii

Nel lungo giorno degli addii pioveva,
giustamente, salutarsi nel sole non si può.
Lei piangeva. Lui anche.
Non avevano più nulla da dirsi.
Lei avrebbe voluto pronunciare una frase epocale.
Lui sarebbe voluto andare in camporella.
Almeno per l’ultima volta.
Non andarono in nessun posto
e lei non disse nulla di epocale.
Lui tornò a casa a collezionare malinconie
lei a pensare all’ennesima vita da ricominciare.
La pioggia sommergeva il cielo e la città;
sui muri, sporchi manifesti colorati
vendevano nuove passioni.


Il sole che scalda

Scalda il sole la giornata estiva
che s’arrampica sui colli verdissimi
sino al limite delle nubi.
Il giorno supera i confini del tempo
e la luce infinita offende gli occhi
senza che la mente sappia trovare requie.
Il calore stordisce lo spirito
e i rumori, i colori, i silenzi del pomeriggio
evocano pensieri abbacinanti
che incidono il giorno di tristezze.
L’esistenza allora sembra vuota
e l’abbaiare affannato dei cani
è forse l’unico segno di vita.


La carovana delle malinconie

I) Prima del passaggio
Una riflessione che non va giù,
e galleggia in gola, senza pietà.
La stazione deserta, spenta, inerte
e la noia distinta dell’ignoto
bacia i semafori verdi.
Ma i treni non sanno più muoversi, come me.
E allora io adagio questo mio tormentato presente
su una panchina di pietra, orlata di gomme annerite;
dormo tra una scritta ignota che reclama un amore,
e tra un’altra scritta, più in basso, che ricorda una data.
Ho lasciato il cuscino di là,
tra gli oggetti smarriti non reclamanti.
Non è stanotte come il sonno di casa:
il letto è una folla di dolori banali.
È troppo facile scrivere versi incostanti
osservando due binari infiniti
che la notte lucida illumina di angosce tiepide.
Si alzano le cartacce, ma non le temo,
e nemmeno mi spaventa la polvere:
solo le luci artificiali della città
incidono amarezze nella mia carne.

II) Durante il passaggio
M’illudo di possedere ogni cosa stanotte:
il buio, i bagagli di passeggeri invisibili,
la stazione che desidera treni audaci
in movimento verso di lei,
e la sala d’aspetto che da lontano
m’invita al caldo con l’occhio languido.
Ma quando finirà tutto questo?
Non so più distinguere tra loro
il primo e l’ultimo treno del giorno.
Il fanale di coda da quello di testa.
Solamente quando la noia entra nella mia bocca
i denti smettono di tremare; ho sonno, forse,
o forse non l’ho più, sono vivo perché stanco,
perché non ho chiuso gli occhi di fronte al mendicante
che dorme con me sotto questa panchina.

III) Dopo il passaggio
Mi alzo in piedi, solitario percorro il marciapiede solitario,
e le ore non passano più.
Nemmeno le angosce del quotidiano lo fanno:
le sento friggere sui fili dell’alta tensione,
ma non sanno morire, cattive.
Lento come le forze che tornano,
al mattino dopo il sonno,
un treno merci arriva, e spezza
la carovana delle malinconie.
Le pagine bianche d’un libro
sono una compagnia che non scalda.
Nemmeno una donna, forse, basterebbe stanotte
per tenere a bada cervello e cuore,
in questa stazione rocciosa
che non è un letto, né un materasso di amarezze,
e nemmeno un sogno per psicanalista.

IV) Quel che resta della bile nera
Il treno merci è passato oltre, faticoso:
lontano il segnale è tornato rosso.
E rosse le mie guance, le mani, le nocche:
come quel taccuino che vidi a terra,
nell’atrio di un’altra stazione deserta:
piangeva parole che ho dimenticato,
da tempo.


Giuseppe Barreca è nato a Reggio Calabria nel 1974. Nel 1999 si è laureato in filosofia presso l’Università degli Studi di Milano; sempre nella stessa Università, nel gennaio 2005, ha conseguito il Dottorato in filosofia morale. Dopo un periodo trascorso come “assistente” presso la cattedra di Filosofia morale, dal 2010 è un dipendente pubblico.
Ha al suo attivo alcune pubblicazioni “accademiche”, tra cui si può segnalare Animali non umani: responsabilità o diritti?, Unicopli, Milano 2003; appassionato di letture e scritture, nel 2007 ha ottenuto un piazzamento di prestigio nell’ambio del Premio di Poesia “Lorenzo Montano” organizzato dalla rivista “Anterem” di Verona. Sull’onda di questa soddisfazione, nel 2009 ha pubblicato per Lietocolle una silloge di poesie intitolata La giostra difettosa.
Dal dicembre 2008 cura un proprio blog: http://poesiaescrittura.blogspot.com/