BIG_SBLANDO definitivissima

Libro di argute sincerità, di dissimulata capacità letteraria: questo di Sblando offre i suoi momenti più forti quando – cedendo dai territori più sicuri della sagacia e della letteratura – quasi si perde, sgomento e quasi attonito, dinanzi a certe dismisure della esistenza. Intendo che una controllata composizione, una trama di riferimenti letterari tra gli assodati e conclamati non impediscono al tramviere «prestato alla poesia» di essere una «chiave da 14» che «tenta di stringere un bullone da 11». Il libro abita questa sproporzione, al limite tra l’ironico e il tragico. E la abita attraversando vari livelli del problema – già messo a fuoco da Montale – della inappartenenza. Che è poi il problema della poesia che nasce nell’ambito borghese contemporaneo, una poesia che sembra galleggiare in una espressione infinita e sfinita dell’io che appartiene solo a se stesso. Sblando una poesia del genere non la vorrebbe, ma tale sua volontà non si esprime come fanno altri – più facilmente – in una forzatura ideologica che interviene in modo esteriore sul corpo della poesia, bensì soffre interamente la situazione dall’interno.
Mi piace quando riconosce qualcosa che attorno a lui gli parla una lingua non immediatamente decrittabile in pensieri e riflessioni […] E questa capacità percettiva, viva, si sposa talora ai movimenti dettati da vivacità e da una certa acribia auto-riflessiva.
Il lavoro di questo scrittore disincantato e acuto, per il quale non esiste la felicità ma la speranza, mi pare rappresenti un libro che dice di un’epoca, di un noi, e non sia solo lo strano diario di un tramviere.


dalla prefazione di Davide Rondoni

Alcune poesie tratte dalla raccolta

Come noi

Concedo tutto me stesso ad una passeggiata
di portici e schiamazzi, di profumi ed erbe
di vento e di bandiere.
Siamo in questo esistere di cose non dette
un garbuglio di giochi e silenzi
nell’abbandono di un’apparenza disattesa

Parliamo di strade, fra mendici e rimandi
di vento, solitudini d’asfalto e sigarette.
Preghiamo ché sia la distanza
l’inappetenza del destino a renderci
singolare moltitudine fra specchi deformati

E che non sia la curva di una rotaia
a indicarci la precisa direzione

Gelosia

Non sarai fra mura di cera accesa
stesa a colare, o negli echi di una
ineffabile lingua, a ritrovare la tua
fotografia nel silenzio senza luce

Non riconoscerai più qui e nei giorni
che rileggono il passato, quel verso
germogliato sul profilo e caduto
sopra un foglio bianco, ad asciugare

Profumano ancora queste notti
di rosa, dei fiumi delle tue labbra.
E che nessun altro s’abbeveri

Siamo

Siamo le parole che non scriviamo
quelle che pronunciamo
siamo gesti tra i pensieri
la carica a molla di un orologio
da taschino
le poesie rubate ai malanni
di Ripellino

Siamo la voce che non sentiamo
nel diniego in trasparenza
di una amicizia
Siamo la luce infinita dei lucernari
la disciplina del sorriso di Mandel’stam
aperto come una strada,
non docile
non servo

Siamo l’assoluta ragione del consorte
la quiete nell’irrazionalità di una accusa
Perché voglio il silenzio in questa vita
l’urlo eterno nella mia discendenza
dopo la morte

Della mia mansarda

Amo il freddo silenzioso
della mia mansarda
della vita fra i lucernari
che come in un personale
stato
di necessità
avvolge garbugli di fogli
tenuti stretti
nell’assedio
del giorno alle parole
nella dolcezza appassionata
dell’impegno
nel desiderio
di porgere
un tuo fianco
furtivo
alla notte


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