Dopo le raccolte “Di sole voci” (Lietocolle, 2010) e “Solo Minuscola Scrittura” (La Vita Felice, 2012), Silvia Rosa torna alle stampe -a distanza di due anni- con la silloge “Genealogia imperfetta” nella collana “Le voci italiane” diretta in origine da Milo De Angelis, suggellando così, implicitamente, il compimento maturativo di un percorso poetico che, in verità, non ha mai mostrato segni di acerbità stilistica né di contenuti poco meditati, quanto invece -come accade a qualsiasi scrittore di poesia o prosa- qualche debito iniziale a quelli che tuttora sono i modelli imprescindibili della poesia italiana contemporanea. Da questo punto di vista nessun poeta è immune dalla lezione e dall’eredità novecentesca, sia come innesto in una tradizione canonica sia come limite ostinato alla produzione di forme espressive meno epigoniche e più universalmente riconoscibili come radicalmente nuove (del resto, quante volte il nuovo, proprio in quanto nuovo, stenta ad essere riconosciuto come tale?).
“Genealogia imperfetta” è un libro composito, così come mostrano e dimostrano le quattro sezioni che lo compongono: “Orme”, “Amore centro”, “Per la costruzione di un’archeologia (futura)”, “Genealogia imperfetta”, che dà poi il titolo complessivo alla silloge. E il carattere composito è dato dal taglio tematico di ciascuna sezione: da una riflessione sul presente (Orme) al tentativo di ripensamento di un vissuto lontano dove -quasi psicoanaliticamente- sembrano risiedere i nodi dell’ “imperfezione genealogica” dell’Io e, ancora più profondamente, del paradigma antropologico; dalla riconferma della centralità e atemporalità dell’amore come dimensione ora salvifica ora abissale dell’esistere, alla “costruzione” anticipatoria di un memoriale, una stanza dei ricordi cui poter attingere in un futuro futuribile, non fosse altro che per potersi ricordare di essere stati vivi e senzienti, di aver avuto una storia e situazioni e volti a riempire un vissuto altrimenti amnesico e per impedire così -preventivamente- il darsi di un bilancio biografico dove non è il deficit esistenziale a spaventare, quanto la terribilità del segno niente, di una vita da nulla.
Rispetto alle due raccolte precedenti, non si può dire che la poesia di Silvia Rosa, pur nel nitore e rigore formale che ne caratterizza da sempre la scrittura, abbia sciolto irenicamente il suo percussivo confronto con il dolore, sia come esperienza soggettiva che come constatazione di un destino comune. Il graffio profondo, la ferita originaria, l’imperfezione genealogica quale imprinting della decaduta e perpetuamente decadente condizione dell’ umano, rimangono sempre figure in primo piano, quasi a volerne riaffermare -anche se non intenzionalmente- i termini insuperabili di onnipresente e atavica maledizione teologica, di fatalità ossessiva e priva di soluzioni praticabili e permanenti, tuttavia qui, in “Genealogia imperfetta” -e questa sì, è una nota inedita- è presente nelle maglie strette di una filosofia negativa di fondo perfettamente in sintonia con gli umori spirituali e culturali contemporanei, la citazione, la figurazione di un “varco” (di montaliana memoria) verso un’ esperienza risarcitoria possibile o anche della sola eventualità potenziale di fotogrammare istanti e istantanee di felicità, una felicità non certo teofanica né epifanica ma semplicemente e integralmente umana e terrestre: “[…] non mi sembrava vero/ che l’uscita coincidesse perfettamente/ con una domenica pomeriggio di non si sa dove,/ come dentro a un racconto su una panchina (tu ed io)”. Forse l’amore non sarà la soluzione del dramma inscritto nella voragine semantica evocata da Heidegger con l’espressione “essere gettati nel mondo”, e nemmeno potrà esserlo la percezione effimera del potere incantatorio e sensuale della natura (il bosco, gli alberi, le foglie, i sentieri tratteggiati in “Orme”), ma è innegabile -come sembra voler dire, oggi, Silvia Rosa- che senza tali “varchi”, vivere sarebbe molto peggio: un inenarrabile, ipertragico percorso dal nascere al morire, e nel mezzo, un lungo, interminabile, lancinante soffrire disumano.