IMG_0671

Così vanno dicendo – sottovoce

Quanti?… 300… 400… nessuno ha potuto contarli.
E chi conosce i loro nomi? uomini, donne e bambini,
in un amen finiti in fondo al mare portandosi dietro
tutto quel che avevano addosso. Nulla.
Nulla, oltre la sabbia nelle scarpe,
e un carico di fame e di orrori marcati per sempre
nei cuori e nelle carni. Sia quel che sia.
Sospese per il momento esecrazioni,
interrogazioni parlamentari, cessati i dibattiti televisivi,
le criminali, idiote provocazioni di quel Verde partito;
esaurite le lacrime, le scorte di corone, in riserva
l’acqua benedetta ( liscia gassata o ferrarelle? )
da aspergere sulle casse di cartone
in riga sul molo, ancora adesso può capitare
che l’orecchio-sonar d’un qualche motopeschereccio
carico di reti sempre più leggere, arrivi a cogliere
da quei fondali echi come un sommesso gorgogliare
di parole, lamenti, grani di preghiere,
invocazioni di soccorso all’indirizzo d’un dio
troppo lontano per occuparsi di loro;
puntigliosamente indaffarato a contare teste
leccandosi le dita macchiate di sangue.
Così, facendosi il segno della croce, vanno dicendo
parlando adagio, sottovoce – come a confessarsi un peccato –
le genti di quelle coste, antiche come la fatica dei pescatori,
dai fondali cosparsi d’ossa, corrosi bronzi, marmi
di mùtili Dèi, omerici eroi, accigliati filosofi e anfore vinarie.
Certo, ci vorrà un po’ di tempo
prima che a quelli ancora in fondo nella pancia
del barcone gli crescano le branchie
per poter respirare; e squame, e pinne per navigare.
Allora, senza più l’atroce memoria nelle fradicie ossa,
potrebbe anche accadere che gli venga voglia di proseguire
sotto le onde del mare lucente il viaggio interrotto
quel lontano giorno. Verso dove?
Questo forse non importa più nemmeno a loro.
E noi intanto, qui dove siamo. Immobili e pensierosi
a spiare un orizzonte sempre più nero
in attesa del prossimo sbarco per dare sfogo
al nostro telegenico compianto.
Nel frattempo, sul molo un nuovo stock di bare
spalancate, generosamente disposte all’accoglienza.

*
Chi ce l’ha più lungo?

L’americano ce l’ha lungo 2o
Il russo ce l’ha lungo 17
Il cinese ce l’ha lungo 14
L’inglese ce l’ha lungo 17
il francese ce l’ha lungo 19

cm. più, cm. meno
su d’una cosa siamo tutti d’accordo:
più lunghi e grossi sono e più fanno impressione
quando sfilano eretti in Parata lungo Piazze e Viali
tra le plaudenti folle infoiate.
Inoltre, a conti fatti – così c’è stato detto – ci sono più testate
di cazzi nucleari negli arsenali puntati sulle nostre teste
che stelle fisse appese in cielo;
e tante da rendere questo azzurro pianetino
nel luogo più orribile del sistema solare, e dintorni.
E a sentirli parlare dall’alto dei loro pulpiti marziali
– questi superdotati & superminorati –
sembra proprio che adesso – non li avete sentiti?! –
stanchi di giocare vogliano fare sul serio
– se no, che piacere è?! – e ognuno, com’è giusto,
con le proprie ragioni criminali.
Che possiamo farci noi?
Sia quel che sia, quel che sarà dopo
non sarà più affare nostro.
Un giorno, semmai, un giorno ne scriveranno nei loro libri
i soli sopravvissuti di questa scontata storia:
ragni vermi mosche topi e scarafaggi,
signori e padroni d’un nuovo mondo
purgato una volta per tutte dell’ humana presenza.
Amen.

*

Il succo della Vita

Senza freni la fame nell’uomo.
Tutto è cibo per lui.
E tutti seduti alla stessa tavola;
chi si ciba, e chi viene cibato.
Questa non è cinica filosofia;
è cruda fisiologia.
Gli stomaci hanno orrore del vuoto,
e di continuo comandano d’essere riempiti.
In quelli gastrici il succo della Vita.
Ma più terribile ancora,
Lui, che amorevolmente ci alleva,
e poi ci pietanza.
Oh, sì, Egli ci ama. Siamo il suo piatto preferito.

“ Meglio sarebbe stato un dio vegetariano.”

Nulla sarebbe cambiato:
tutti asparagi, carotine o piselli in questo suo ospedaliero
orticello, il cuoco Padre nostro ci avrebbe seminato.

*

Scarabeo Stercorario
alchemico poeta

Titanico nella sua impresa
sotto l’occhio beffardo del sole,
guardalo Scarabeo Stercorario
mentre spinge con ispirata acribia
il suo pianetino escrementizio,
suo alimento e dimora.
Ma quando sul sidereo leggìo
si sfoglia della notte l’arcano volume,
lui, poeta per destino, necessità, o maledizione,
con lo sguardo fisso alle figurate stelle
dentro di sé con animo stoico,
senza infingimenti s’addentra.
E nessuno potrà mai comprendere
per quale metabolismo o magica alchimia
quel tutto suo mondo d’organica materia
per noi si trasfiguri d’incanto
nel vivificante salvifico Verbo della Poesia.


IMG_0672Ennio Onnis, nato a Torino da padre sardo e madre piemontese, avrei nulla o poco da dire sino all’età di 12/13 anni circa; e cioè, quando mi giunse la prima “chiamata” della pittura: e, quasi in concomitanza,
della poesia- beninteso, come poteva concepirla un ragazzino di quell’età-.
Ma subito dopo le due cose si fanno serie. La pittura prende lo sbocco naturale verso scuole d’Arte; quindi le prime mostre collettive e personali ( Luigi Carluccio m’incluse tra gli artisti giovani da invitare alla Biennale di Venezia). Ma nel frattempo anche la necessità della scrittura poetica si fa sentire sempre più insistentemente, seppure, per così dire, nascosta sotto un velo di “ voluta invisibilità”; considerandola io come un fatto riservato, tra me e me; forse, per una forma di caratteriale pudicizia.
Quindi, mentre la pittura vola, le poesie restano nel cassetto. Sin a quando ad un certo momento sono loro a chiedermi di voler uscirne… a prendere un po’ d’aria. La qual cosa avviene dopo tanti e tanti anni di sonno, nel 2013! con un magrissimo libretto, letto, credo, da non più d’una ventina di
persone. Mi piace comunque sottolineare il fatto che una di quelle poesie “Mercati di sterminio” venne pubblicata sulla prestigiosa rivista Poesia.
Naturalmente questo fu per me un motivo d’incoraggiamento. Da quel libretto sono poi iniziate su invito varie letture pubbliche dei miei versi, e incontri in vari Festival (Oblom Poesia, Festivart della Follia, Il Balconcino fiorito) con giovani e validissimi poeti.
Nel 2014 l’uscita d’una più corposa raccolta di poesie – molte inedite e altre rimaneggiate – dal titolo “Mulino Nero” con postfazione di Ivan Fassio.