
Pietre Vive Editore, 2016
nota Daìta Martinez
Rotola un riccio sulla provinciale
balugina sfatta la foglia
macerata nel guazzo
e quest’anno i castagni
li si mormora sterili.
L’umido s’agglutina
dolcemente alle ossa,
il fiato tuo defluisce
in un rivolo fino alla falda
e berremo noi l’inverno,
tutto a primavera.
Distillare il corpo di una strada dal fondo tangibile dello sguardo è un percorso, un principio di stupore, un fragile movimento di suono. È distillare, dopo l’inverno, il corpo di una camera a vista. È cercare, conservare, detergere l’incauta apparenza del vero. È il compiersi esistenziale in una collezione di anamnesi, detersa estensione di un io, affrescato pur anche tra utopiche dita X di uno sconosciuto al suo indietro bambino che si dispone movimento circolare e prossimo “intorno a vicende storiche e coloniali d’un mondo mai esistito”.
Un mondo che si schiude dentro il mondo. Un mondo che si riporta supposto raccolto o riserva perpetua di elegiache vendemmie in un quasi mostrarsi sintomo di una archeologica percezione dell’andare, con filtro estetico e melanconico, sino al substrato di uno scavo psicologico a temporale eppure così ostinatamente tempo.
Tempo che passa da parte a parte e che nel trapasso si conserva, ci conserva storia nella storia di “un complicato quotidiano”, genesi dell’uomo, eusocialità di passi spiccati e poi piantati nell’incuria del nulla, nell’imprudente dimenticanza d’amore.
E lo sanno i Pioppi che:
Nei giorni del Leone
(della fame d’aria)
si boccheggia e si placa
il tramenare nel lago
e pure tutt’intorno.
Nell’ore roventi del riposo
promana la cava fiochi boati,
scrosci remoti di pietra,
poi langue il granito
e l’acqua ha un traballìo.
Dello strazio del pioppo
Nessuno mai si cura,
trèmulo fino in bonaccia,
ci allerta di tragedie minori.
La natura, il suo linguaggio autentico, cantico ristoro di accezioni, qui tra un prima e un dopo simbolico d’intenti dove “Bruciammo lanterne cinesi, / ma una scampò ed i venti curiosi” accorsero nella di lei misericordia, visionaria in piena parentesi d’acqua, rivo spirituale d’idea “come i giochi di latta”, come l’alterarsi del silenzio nella caotica appartenenza al gesto che si scopre d’ogni verbo nascita e trascendenza, “come la collezione d’auto lentamente mangiata dal bosco”, antesi che assidua il consistere nella tenerezza svelata degli oggetti o di un sussulto accolto nell’archetipo paradosso degli dèi “pregni e grondanti di materia e natura”.
Con maestrìa e raffinata intuizione poetica, Carlo Tosetti, riesce, in espressione, un’archetipica risonanza del verso, incavo ancestrale di un oggi nell’incisiva parafrasi di impressione che declina al sole e s’insiste ad albeggiare versanti e trame, impronte e accadimenti sommersi, ibernati, impagliati, poi compiuti ché:
Quando s’ingabbiavano
i grilli all’Ascensione,
gioivano i bambini
e frinivano gli insetti
rabbuiati e bellicosi.
Per taluni sedotti
Dalla moda dei cinesi,
a porco e stille d’acqua
si allevava un gladiatore;
i più, predestinati a compagnia,
quel dì solo, dei mocciosi,
fatui si spengevano
d’inedia e d’afflizioni.
Pagine, queste, nelle quali si rammenda la ferita primigenia, il parto terrestre e immateriale di atavica movenza nell’adempiersi di un rievocato che si implicita strumentale convergenza e annoda al presente un oggettivato immerso, indagato e implicato nella bulica consonanza della custodia coi suoi divini paradossi, un ritorno “ad una rudimentale forma di perdono”.
Gli estratti riportati nell’articolo sono davvero belli; comprerò il libro di Carlo Tosetti, se tanto mi dà tanto. Ma la prosa che li incastona la direi imbarazzante, se solo sospettassi di averci capito qualcosa.
Ciò malgrado, ringrazio l’Autrice o l’Autore per avermi fatto conoscere questo poeta.
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Daìta cara grazie per questa splendida nota (che io continuo a chiamare ricamo) e per la segnalazione. Sei preziosa. Un abbraccio
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Grazie infinite, Daìta. Sono lusingato!
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