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Un libro di denuncia: eu-nuca di Patrizia Sardisco, Ed. Cofine, novembre 2018

Un libro senz’altro politico “eu-nuca”, che si schiera senza reticenza alcuna contro i provvedimenti adottati dall’Europa Unita allo scopo di porre freno alla migrazione.

Patrizia Sardisco affida il suo sdegno a un linguaggio duro nei suoni, arduo nel lessico, ironico nei tanti, serissimi giochi di significato, spietato nella condanna di una disumanità che scempia il volto dell’Europa, non più giovane e bello come quella della fanciulla eternata dal mito, ma vecchio e protervo, ottusamente intento alla conservazione dei privilegi acquisiti e del benessere economico.

Un corpo, dunque, malato, quello del vecchio continente, di ipossia, di scotomia, (quasi cieco, insomma, e senza fiato) votato alla dissoluzione e all’auto-azzeramento (a cominciare da quegli ideali voluti dai padri fondatori), incancrenito dalla disumanità, così da smarrire il valore del singolo, la sacralità di ogni vita, a favore di una concezione massificante e di una desolante “estetica economica”.

Non più il fato, né un’oscura volontà divina determinano, dunque, la “gettatezza” heideggeriana (quella percezione che ci prende ad un certo punto della vita di essere gettati, soli, nel mondo) ma la stessa “mano umana”, che respinge, che disconosce il legame, che fa del diritto uno scacco morale, una maschera ambigua.

L’atmosfera che si respira in questo nostro tempo di novella barbarie rammenta all’autrice quella del secondo dopoguerra: da qui prende le mosse il testo (pag. 29) che riecheggia l’altro celeberrimo di Salvatore Quasimodo “Alle fronde dei salici” in cui ritornano, ma con tono e senso mutati, espressioni come “l’urlo nero” che qui si fa “extraterritoriale”, mentre le “lire”, non più strumenti musicali, ma monete “stonano_ non cantano // e come mai potrebbero/ prive di lingua umana”, a sottolineare l’impossibilità del “canto”, quando la situazione storica opprime anch’essa il cuore come “il piede nemico” evocato dal poeta siciliano.

I testi della Sardisco che, come scrive Anna Maria Curci nella prefazione, costituiscono “un vero e proprio poemetto in 31 quadri” non posseggono, infatti, la consolazione della musica (nonostante le molte allitterazioni ed assonanze e omofonie, e perfino qualche rima) e non potrebbero, ché altro vogliono essere: accusa, indignazione, quasi spavento. Perfino la veste editoriale, così sobria, così severa, l’immagine stessa di copertina veicolano sconforto e grigiore.

Nessuna consolazione, dunque, ma nemmeno rassegnazione: come dire che il poeta, se non può sottrarsi ai mali, alle storture, alle ingiustizie del tempo in cui vive, ha il dovere di denunciare, affinché qualcuno possa raccogliere il suo messaggio e farne un annunzio di possibile cambiamento. Se la poesia è fare, basterebbe, come afferma l’autrice, “voltarsi/ per continuare a vivere/ agire le parole scritte.”

Franca Alaimo

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