Giardino della gioia
di Maria Grazia Calandrone
Quando tutto (creature, cose, eventi) accade nei suoni della poesia, allora questo tutto si fa nuovo e assoluto. Così nel “Giardino della gioia” della Calandone, che si colloca di fronte all’esistenza con la volontà di comprenderla (afferrarla, farla entrare nello sguardo, nelle mani) e la necessità di compatirla (entrando in risonanza emotiva e affettiva con esso), del tutto consapevole che solo l’amore sana fratture pregiudizi distanze, facendo fiorire la gioia nel recinto così caotico del mondo.
L’amore di cui parla la Calandrone non è sentimento privato, né facile utopia, né vago romanticismo; ma, come afferma lei, un gesto politico (non necessariamente ancorato ad una ideologia), se per politica si suole definire un insieme di azioni volte al bene comune. Si riaffaccia così la tanto dibattuta tesi dello stretto legame fra estetica (la bellezza delle forme viventi e dell’arte – nello specifico nell’ambito del dire poetico) ed etica che sta alla base di ogni sentire “religioso”; intendendo per religione non un credo specifico (l’autrice ne è manifestamente lontana), ma quella capacità di vedere i legami (come spiega l’etimo della parola) fra tutti gli esseri, animati e inanimati, dell’ambiente circostante.
La percezione del rapporto individuo-ambiente, per quanto riguarda l’autrice, sembra nascere, più che dalla volontà di ancorarsi a una disquisizione filosofica, da una concretissima presa di coscienza che definisce l’estetica quale percezione soggettiva del proprio legame con l’ambiente, e l’etica come necessità di compiere idee ed azioni adatte a mantenerlo il più possibile armonioso.
Ciò premesso, è possibile definire il Giardino della gioia un libro religioso, perché contiene in sé una sorta di fervore mistico e una prospettiva di inesauribile germinazione della vita, che avvertono come scrive Rilke, quelli “che accettano il passaggio, che dicono sì alla sparizione e per i quali la sparizione può essere pronunciata, diviene parola e canto”.
La Calandrone, infatti, proprio perché sa la provvisorietà di ogni cosa, fa derivare dalla fragilità la gioia di essere, di esserci: “i mortali senza nome e cognome torneremo cose/ tra le cose, senza involucri e senza nostalgia ritorneremo/ all’indifferenziato delle stelle. Ma adesso, adesso/ che siamo vivi”. Ma questo amore della vita per la vita, che sembrerebbe pre-razionale, (“se da adulti riappare/la bianca terra iniziale/che avevamo negli occhi da bambini,/siamo tornati a quelli che eravamo//bassi, vicini al senso delle cose,/corolle aperte/a un palmo da terra”), archetipale, come suggerisce lo stesso titolo della raccolta rimandando alla condizione edenica dell’assenza del male; in realtà costituisce un atto straordinario di coraggio “politico”, com’è stato già detto.
La Calandrone non è sognatrice, è una che sta con i piedi per terra; quando si dice, all’inizio di questa lettura, che nel libro dell’autrice romana accade tutto, s’intende dire che la sua poesia è una testimone attentissima dei fatti, delle nefandezze pubbliche e private del nostro tempo: dal misterioso rapimento di Emanuela Orlando agli episodi più noti di cronaca nera raccontati dai mass-media; dalle tragedie vissute dagli extracomunitari alle condizioni socio-economiche della Bosnia attuale dopo il lungo conflitto serbo-bosniaco-croata degli anni ’90. Ma quello che la distingue e la rende commovente è come lei abbracci il male degli altri (parlerei di una cristicità laica), cercando di penetrare nel groviglio delle contraddittorietà emotive per salvare l’umanità della persona, quella vocazione iniziale al bene che resiste in qualche parte della mente e che, dopo il crimine, si manifesta in lacerazioni emotive strazianti e spesso deliranti. È commovente che la poesia stessa possa servire da “riparo”, come accade nell’episodio che racconta, attraverso una fedele trascrizione fonetica, le sevizie subite da Emanuela Orlandi, ai cui lamenti e invocazioni di pietà si contrappongono le invocazioni di Saffo Ad Afrodite.
È, dunque, la resistenza del Bene (Bene morale è il titolo della silloge precedente della Calandrone, giusto per sottolineare una continuità tematica), la necessità della sua pratica, a costituire il fulcro terso e concretamente visionario del Giardino della gioia, in cui pure la materia autobiografica (la madre naturale, l’infanzia, l’amore, i figli Anna ed Arturo, gli incontri, gli amici, i viaggi, la propria città) trova spazi d’espressione altissima, tra accenti di stupefazione, intensità amorosa, splendori e novità d’immagini e di simboli che sganciano la parola dal mondo razionale delle consequenzialità e le donano quella libertà e profondità espressiva che è propria della poesia (“diceva sempre senza la poesia/io non capisco niente della vita”)
Versi, quelli della Calandrone, che ora ci sorprendono, ora ci pungono come un ago. E noi li attraversiamo mentre avanziamo con i nostri corpi e le mani che via via srotolano i grovigli delle passioni, fino ad arrivare, come in un cammino iniziatico, in uno spazio senza logica, dove tutto, prima di essere nome, era pura bellezza. Scopriamo ancora una volta quanto sapevamo già: che nulla ha senso, ma che (così risponde al figlio Arturo, che “con il libro di grammatica aperto sul tavolo” le chiede: A che serve?) “la bellezza/ è gratuità del gesto,/ come quando vi amate,/ è il momento preciso in cui un essere umano/ si stacca da terra,/ s’inginocchia e disegna/ un toro/ sulla parete/ della sua grotta,/ a Lascaux. Così,/ senza motivo./ O ha scoperto il modo/ per non essere solo/ – e ha scoperto il modo/ per non morire”.
Franca Alaimo