In poesia, lo sperimentalismo spesso suscita diffidenza. Giustificata, quando è espressione di un cerebralismo arido e fine a se stesso o, come non di rado, di un’esibizionistica e vuota rincorsa del nuovo.
La poesia di Daìta Martinez, singolare talento palermitano giunto con “nutrica” (LietoColle, 2019) alla sua sesta silloge, può definirsi sperimentale. Pur nella consapevolezza di quanto sia semplicistico e a volte riduttivo incasellare la poesia in una categoria o corrente. Ancor più se si parla di sperimentalismo: non è forse ogni poesia “sperimentale” nella misura in cui risulta frutto di ricerca? del tentativo – faticoso più di quanto possa ritenersi – di approdo a una forma congrua che rivesta i sussulti dei moti interiori?
Ciò premesso, si riconduce comunque la poesia della Martinez, e ancor più quella di “nutrica”, allo sperimentalismo per l’azzardo della sua ricerca e per i suoi esiti per certi aspetti estremi.
Lo sperimentalismo di Daìta Martinez e della sua raccolta “nutrica” è però tutt’altro che cerebrale e arido: è anzi generato da un groviglio di emozioni e sentimenti che non riesce a contenersi dentro i recinti, per lei soffocanti, delle forme metriche ed espressive più comuni. La Martinez cerca le parole e i modi per dare voce poetica al vulcano mai domo di turbamenti, schiarite, delusioni, affetti, rimpianti, tiepide gioie. Trovandoli in composizioni che danno rilievo agli aspetti visivi, destrutturano la versificazione e sovvertono la sequenza logica di un discorso lirico spezzato in frammenti. Da qui, nella disarticolazione delle strofe, un susseguirsi di versi adagiati sulla pagina nel modo più inconsueto, con segni grafici diversi e talvolta inusuali, quali le parentesi quadre, e disposti sul pentagramma della poesia quasi sempre con esattezza geometrica.
In “nutrica”, come peraltro nella più recente e frequente generale produzione poetica, è ignorata la punteggiatura, e però i segni d’interpunzione assumono un rilevo particolare perché ricorrono nella spartizione delle strofe. I punti d’interpunzione cui fa uso la Martinez per scandire il suo dire poetico sono soprattutto i due punti e il punto e virgola. Entrambi assolvono a funzioni coreografiche nella rappresentazione visuale della versificazione, ma non solo: i due punti esplicitano un racconto lirico che necessita, per la sua complessità, di una continua e ulteriore specificazione; i punti e virgola separano immagini e visioni poetiche tra di loro connesse. Ma si direbbe che alla Martinez la parola non basta per esternare la tempesta emotiva che racchiude dentro se stessa: perciò essa è scomposta (“è un gracile scomporre / la manta di parole”) e a volte scissa (“pomodori” es stratti”, “albi cocca”, “a ff on do”, “nasce/ ndo, in questo caso addirittura separata da due versi e dallo stile di carattere). E a confermare quanto la ricerca della parola conti per la Martinez e come nello stesso tempo la poetessa sia consapevole del limite che ha in sé la parola, si cita questo passo, dove le pause, oltre che ad accentuare l’emotività, sottolineano la complessità della comunicazione, nella fattispecie anche relazionale: “ una parola basterebbe una parola rotta anche solo quella una parola da svitare”. Questo avvertire la difficoltà intrinseca del linguaggio verbale, e anche di quello poetico consueto, spinge la Martinez ad accostarsi alla poesia visuale (con maggiore evidenza in questa silloge rispetto alle precedenti, senza però aderire ai suoi più arditi sviluppi), a combinare passi di prosa (invero prosa apparente nella raffigurazione grafica) e passi di lirica (anche nell’esposizione formale), e a dare vita a felici commistioni dell’italiano e del dialetto, che l’autrice padroneggia egregiamente. Probabilmente, proprio nell’incontro tra la lingua e il dialetto potrebbe indirizzarsi, con risultati ancora più felici, la laboriosa ricerca poetica della Martinez, tanto più ove si consideri che lingua e dialetto si muovono, nella poetica dell’autrice, lungo i binari di registri comunicativi diversi e complementari. Né al riguardo pare superfluo ricordare che la Martinez è anche una poetessa dialettale – atipica in un panorama in cui ha sempre prevalso, tranne rare eccezioni (leggasi Santo Calì), e continua a prevalere la tradizione – e che, da poetessa dialettale, si è aggiudicata il primo premio al Concorso Nazionale di Poesia Città di Chiaramonte Gulfi ed è stata finalista alla 44° edizione del Premio Internazionale di Poesia Città di Marineo.
I versi di Daìta Martinez rivelano, anche nella trasgressione e nella temerarietà iconoclasta dell’abito che li riveste, un garbuglio di stati d’animo e di sensitive trepidazioni che potrebbe sortire effetti esplosivi. Ma ciò non accade perché, malgrado tutto, l’autrice sa tenere a bada i propri intimi bollori, le antinomie e i contrappunti esistenziali. Tramite la grazia dei suoi versi: grazia che ha dentro di sé e che asseconda e placa l’interiore irrequietezza. Si spiega così come, nella sua poesia, la Martinez non alza mai la voce anche quando si fa filtro di accadimenti particolarmente dolorosi, e come, nei suoi versi, non esistono che lettere in minuscolo. E non a caso tra le parole più presenti in “nutrica” (un omaggio a se stessa bambina, il titolo, o alla parte bambina perenne nella sua controversa identità?) vi sono “pudore” e “rossore” (“il viso arrossato il / pudore della mano / ammorbidita sugli / attimi del sacrario”, “rossore delle guance”) e il pudore si riflette persino sulle cose (“gli antichi cortili coi pomodori cunzati di pudore”). Ma la grazia si associa all’indecenza in un bellissimo verso (“perdona la grazia indecente”) e la sensualità contrassegna momenti felici e sereni, altre volte di rimpianto (“…la / morbidezza ché l’abbraccio sì credo / mi sarebbe piaciuto regalarti amore”) o di malcelati rancori per un’innocenza violata. D’altra parte, come si evince dall’impareggiabile prefazione di Franca Alaimo – che sa cogliere come pochi i tratti distintivi della poesia della Martinez -, l’ossimoro è al centro della multiforme identità poetica dell’autrice: da un lato la tentazione di rifugiarsi nel fiabesco e l’eco dei nidi dell’infanzia che rimbomba nell’abbondare di vezzeggiativi, dall’altro l’incontro-scontro con l’asprezza di una realtà che viola ogni candore (“ho provato a non difendermi dall’inferno / hai mai asciugato / il sangue precipitato / sull’asfalto del seno?”); da un lato la purezza sempre inseguita – riflessa anche nella cantabilità dei suoi versi -, dall’altro l’agguato di un mondo che ferisce (“la donna coi pantaloni / rossi odora di paste di / mandorla si è sciupata / il cuore ai lattarini una / domenica ferita di luce”); da un canto l’esteriorità del paesaggio ricco di colori e umanità della Palermo del centro storico, dall’altro motivi e ritualità religiosi che s’insinuano dentro l’anima; da un canto il senso della sconfitta (“quando ai dadi si perde / e singhiozza la matrice del cuore”), dall’altro il riscatto, la voglia di navigare nelle pur agitate acque della vita dentro la sicura scialuppa dei versi.
Detto tutto ciò, forse appare chiaro che nulla vi è di artificioso nella poesia di Daìta Martinez: quello che sembra complicato rispecchia gli intricati sentieri della sua anima che non potrebbero essere sublimati in forme più consone.
Antonino Cangemi