La resa del grazie di Paola Mancinelli
Ladolfi Editore, 2019
La luce della gioia illumina la poesia di Paola Mancinelli.
Il suo reiterato grazie, che non è soltanto rivolto alle creature come nel Cantico di San Francesco, che pure viene citato a pag.14, ma anche ai sentimenti e agli stati diversi dell’essere, è uno spalancamento dell’anima alla inesausta ricerca di spazi d’innocenza e di tenerezza.
La parola poetica, alla quale non senza significato viene reso il primo grazie, ubbidendo al giubilo della cháris, offre al lettore una “divina narrazione” del mondo, facendo emergere la luce anche dal male, che non è dimenticato, ma lasciato indietro, dopo averlo attraversato, grazie ad uno slancio affamato di bellezza e di adesione amorosa.
In alcuni versi l’oscurità del male (sempre uguale a se stesso, ma redimibile: “Io ti spero” afferma la Mancinelli, nella sua struggente tensione spirituale verso il bene) scolora la gioia: “Siamo qui a prenderci a pugni con gli insulti” (pag. 32), e risuonano i tanti “forse” (“Sempre dubitiamo / e cadiamo dai forse come neve”, pag, 31), e sconsolano i silenzi, la disattenzione, il “rumore di tanti / io frammentati” o “di memoria / spezzata, trafitta e calpestata”. D’improvviso i verbi della narrazione poetica passano dal tempo presente o dell’uomo, a quell’altro infinitamente espanso e divino, attinto dalla Genesi, in cui “eravamo petali / parti uguali di una grazia più grande” e tutto era indistinto e le creature perfettamente incastonate come pietre preziose dentro il desiderio della creazione.
La consapevolezza dell’impossibilità di ripristino di questa primigenia condizione indirizza l’autrice all’età ilare e innocente dell’infanzia, la sola che in qualche modo la ricordi (“Il cuore bambino è fragilissimo varco per il vero”, “Il cuore bambino è una mela granata / che governa il mondo, buccia sottile dell’universo”). Che è, poi, la condizione della parola poetica, se sa guardare ogni cosa come la prima volta, farsi custode dello stupore, palpitare nel sogno della conoscenza indivisa, cucire come una sarta legami profondi (“siamo due sarti che cuciono la gioia”, pag 34).
La Parola, insomma, ancora una volta si annoda all’incandescenza del mistero. Diceva Rilke di sé e dei poeti tutti: “Noi siamo le api dell’invisibile”.
Le fonti di un tale misticismo non sono da rintracciare nelle scritture dei santi canonizzati, quanto piuttosto in quelle di altre poetesse contemporanee, come la Gualtieri, la Calandrone e quante che, contro la cultura del nichilismo così a lungo esercitata, oppongono il miracolo dell’esserci; ma anche nelle meditazioni della teologa Zarri o nel pensiero densissimo della Zambrano. Dell’una la Mancinelli ricorda l’apertura alla vita quotidiana e alla operosità concreta, della seconda il convincimento che soltanto la poesia è in grado di rispondere alle domande dell’uomo.
Certo è che l’amore di cui parla l’autrice non è un sentimento ieratico e astratto, ma un fare che deve appartenere all’uomo come regola di vita. Come ci insegnano le operose dita delle mani è necessaria “La didattica del fare e dell’amare”; per questo motivo la seconda sezione de La resa del grazie permette al lettore di entrare nella dinamica di una coppia, di un tu-io che si fa “noi”, grazie ad “un piccolo dizionario della cura” che elenca cose come: presenza, “l’eterna ferocia del dare”, la “disumana logica del dono”, l’abbraccio “che non ha peso” ma è “aria di fiamma che trema”, la custodia dell’altro, il dire noi “come fosse un sì”, l’attenzione, la tenerezza, e tutte quelle altre preziose e piccolissime che quasi scompaiono anche nel bianco delle pagine dove l’aggettivo è scritto con un corpo tipografico ridottissimo.
È proprio leggendo i testi di questa sezione che si avverte, però, l’urto fra l’approssimazione dei gesti, le spine di certi atteggiamenti e la perfezione dei propositi, a dimostrare che la gioia è una conquista difficile, una meta che può essere raggiunta solo lasciando il cuore aperto al perdono e alla speranza.
Tutto quanto è stato fin qui detto mi sembra sia meravigliosamente riassunto in questi versi (pag. 75) che così recitano: “Perché l’unica cosa / che conta veramente / è questo nostro esserci / il dire noi qui, adesso / in questo istante / dove si veste di tutto / anche il nostro niente”. Con questo stesso testo (che dunque assume una funzione paradigmatica) si conclude anche la bellissima prefazione di Giovanna Rosadini, che della Mancinelli sottolinea “la miracolosa saldezza interiore trasfusa sulla pagina”.
Franca Alaimo
Sempre dubitiamo
e cadiamo dai forse come neve.
Poterti dire a voce alta
come una certezza che non cede.
L’ultimo vessillo prima della tregua.
*
Dammi la tua mano
a ricucire gli strappi delle ombre,
ad esaudire il soffio dei vorrei.
Ti vedo sfrecciare come coda di stella
in questo arco(in(cielo
guardo la fragilità
inarcare il desiderio
urlare forte la speranza
seminare d’azzurro le pareti.
Fai entrare il noi dentro la stanza
dacci un posticino luminoso e innamorato
teniamoci stretti in una mano:
siamo due sarti che vestono la gioia.
*
Non è niente, amore mio.
È solo un altro tutto
da rifare.